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Abolire l’abuso, dimenticare il cittadino

di Mino Mastromarino

Giustizia e Politica. Il loro rapporto, sebbene poliedrico, subisce torsione conflittuale non se la prima non funzioni, bensì se gli esponenti della seconda vengano colpiti da indagini per malaffare. Dunque sempre. Così, nel dibattito pubblico conviene coprire – in maniera strumentale – la indebita reazione politica con la infeconda discussione sui limiti funzionali della magistratura inquirente e sulla tempistica del controllo penale del malcapitato esponente locale o nazionale. Questi – si sostiene inopinatamente – sono pur sempre espressione della volontà popolare. Tutto il resto – ossia la reale fruibilità della giustizia civile, amministrativa, tributaria – non conta.

Di tanto è emblematica la recente soppressione del reato di abuso di ufficio. La soluzione da poco adottata dal Parlamento è stata quella di eradicare il problema: vi è diffuso abuso di potere, allora lo si abolisca per legge. Non lo si punisca, men che mai lo si prevenga con strumenti di deterrenza. Una esiziale scorciatoia, politica e antidemocratica prima che giuridica. La cosa fastidiosa è che il dibattito si è polarizzato, mediante un incredibile rovesciamento di posizione, tra chi è liberale in quanto favorevole all’abrogazione e chi non lo è perché contrario. L’idea del liberalismo è legata alla irrinunciabile salvaguardia degli spazi di libertà del cittadino, specialmente nei confronti dello Stato, e quindi della pubblica amministrazione. Il reato in questione era diretto infatti a proteggere l’individuo dall’esercizio arbitrario del potere da parte degli amministratori e funzionari pubblici che, proprio in ragione della loro sovraordinata collocazione, potevano favorire alcuni ovvero danneggiare altri, operando in barba alla legge. Abrogare questo reato, quindi, non è un atto politico liberale giacché depriva il cittadino di un potente argine contro i soprusi del Leviatano; e, correlativamente, amplia i margini di arbitrio e di incensurabilità della P.A..

Non a caso, la proposta governativa, diventata legge, ha ricevuto il plauso dei sindaci di destra, di centro e di sinistra. La classe politica, in maniera maldestra e impertinente, ha invocato la paura della firma e il rischio della cosiddetta burocrazia difensiva, che, oltre a essere argomenti inopponibili perché inconferenti, sono formule vuote, senza alcun riscontro logico-giuridico o empirico. E‟ come se, per sollevare gli imprenditori dal rischio d’impresa, si cancellassero la bancarotta fraudolenta e tutti i reati fallimentari e societari. La soppressione dell’abuso d’ufficio è spacciata per buona pratica liberale; in realtà, corrisponde all’ esercizio di proterva autotutela ed esecrabile autoreferenzialità. L’intervento legislativo si candida ad avere effetti incontrollabili e disastrosi, segnatamente per la gravissima menomazione della tutela dei cittadini nei riguardi della P.A.. Gli studenti di materie giuridiche imparano subito che la legislazione penale interviene per scoraggiare e reprimere comportamenti che destano allarme sociale. Si illustra pure il principio – solo in apparenza astratto– del cosiddetto bene giuridico, di quel bene cioè cui è preordinato lo specifico presidio della norma munita di sanzione penale. Il reato appena cancellato salvaguardava l’interesse „pubblico‟ al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.

Che – incidenter tantum – sono regole che trovano espressa ospitalità nella Carta Costituzionale. Il buon andamento non significa altro che l’azione della P.A. debba essere orientata al perseguimento dell’interesse comune, cioè dei cittadini. Si parla di imparzialità per indicare che i poteri della pubblica amministrazione debbano essere utilizzati in scrupoloso ossequio del diritto all’eguaglianza dei (soliti e pur negletti) cittadini. 1 E‟ consentito temere quindi che, con la obliterazione dell’abuso di ufficio, sia stato „abolito‟ tacitamente anche l‟art.97 della Costituzione secondo il cui – un po’ ingenuo ma vigente – tenore: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Per chi non veda o, peggio, neghi il pernicioso riverbero di tale eliminazione sulla effettività del principio di eguaglianza, basta considerare la diversità del presupposto soggettivo che disciplina l’accesso all’intervento giudiziario delle distinte giurisdizioni. Il cittadino può reagire contro la ingiustizia e la illegittimità di un provvedimento della pubblica amministrazione, a condizione che ne sia attinto in via diretta e vanti un interesse personale meritevole di difesa. Ha diritto cioè a rivolgersi – a suoi rischio, cure e spese – al Giudice amministrativo, civile o tributario soltanto se inciso individualmente. Prima dell’abolizione, allorché un atto espressamente vietato ( come l’attribuzione di un qualsivoglia incarico, anche gratuito, a parenti stretti da parte di un sindaco) non pregiudicasse alcun consociato o impresa o associazione, esso pure poteva essere perseguito e sanzionato penalmente su denuncia di chiunque, del quisque de populo, in virtù del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Ora, al contrario, a seguito dell’insensata espunzione dell’abuso d’ufficio, lo stesso atto può facilmente rientrare nella sfera di un’insindacabile impunità. Secondo il qualificato giudizio del deputato Cafiero De Raho “ il cittadino che deve denunciare la violazione delle regole di un concorso, o l’aggiramento delle liste di attesa di un ospedale o l’illegittima concessione data al vicino per costruire laddove non potrebbe, non avrà più tutela penale. I cittadini non saranno più protetti contro le angherie e le prevaricazioni del potere pubblico “. Perciò, l’allarme sociale per la malagestione della cosa pubblica, generato dalla ripetuta eradicazione legislativa, non incrocia più la protezione penale . Che è l’unica forma di patrocinio generale, automatico e gratuito spettante al cittadino in quanto tale. Di esso, si fa ( si dovrebbe far) carico lo Stato liberaldemocratico che si fonda sulla inviolabile divisione del potere giudiziario da quello politico. Tuttavia, il Legislatore avrà avuto qualche dubbio . Infatti è stato introdotto, contestualmente e con semantica farragine, il nuovo reato di << indebita destinazione di denaro >>, inteso a recuperare però solo limitati profili della condotta del reato abolito, mirando a colpire il pubblico ufficiale che destina denaro o altri beni a un uso diverso da quello previsto da leggi da cui «non residuano margini di discrezionalità». Beninteso: ove pur questa estrema riduzione della punibilità arrecasse disturbo alla tranquillità del decisore pubblico, si provvederebbe immantinente alla sua abrogazione. La Politica, come la Venere vincitrice del Canova, non tollera molestie giudiziarie alla sua postura serafica.

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