Non è che nel Mezzogiorno manchino le eccellenze professionali (in molti casi quelle del Nord sono di origine meridionale), in realtà è la classe dirigente che gestisce la sanità a fare la differenza nel Sud. Qui la sanità, settore estremamente delicato, è prigioniera di quel clientelismo accattone fatto di primari promossi sul terreno della raccomandazione, spesso portatori di voti a padrini e padroni. Così accade che le strutture sono spesso fatiscenti perché tutta la partita si gioca nell’ambito della malapolitica che per mantenere il consenso dimentica le regole della civiltà dell’accoglienza sanitaria, dei servizi adeguati. Un dato per capire meglio: l’inefficienza della pubblica amministrazione del Sud viene stimata in 30 miliardi di euro. Potrei continuare con gli esempi di sprechi in altri settori della società. Io penso che gli attori del cambiamento del sottosviluppo meridionale non possono che essere i meridionali stessi. Certo essi devono poter fidare sull’equilibrio delle risorse, ma anche sulla propria capacità di essere classe dirigente. Questo richiede uno straordinario cambiamento di mentalità, l’abbandono del fatalismo inconcludente, di quell’assistenzialismo con cui si delega agli altri l’impegno per la rinascita. In questo filone si inserisce la manovra del reddito di cittadinanza il cui impiego appare ancora molto confuso e privo di certezze. Per trasformare la malapolitica che condiziona oggi il Mezzogiorno occorre il coraggio delle scelte e il ritorno alla Responsabilità. E’ ormai troppo tardi, visto lo scenario che si prospetta con questo governo, immaginare in tempo brevi il ritorno della buona politica e dei partiti come riferimento per la soluzione dei problemi. Qualcosa si può ancora fare dando al mandato di rappresentanza il suo reale significato: la tutela del territorio e il concorso a rafforzare le ragioni della crescita e dello sviluppo in ambito nazionale per rinsaldare l’unità del Paese. A mio avviso non c’è più spazio per piangersi addosso, per riscoprire una letteratura strappacuore che ha per decenni ha funzionato da alibi. Il tempo che occorre vivere ora è il tempo che impone di affrontare la realtà facendo ciascuno la propria parte. Nella legalità, nella trasparenza, ricostruendo la coscienza civile fatta di diritti e doveri e, soprattutto, restituendo alla questione morale il suo significato di impegno per il bene comune. Il resto è solo retorica interpretata da prefiche raccolte intorno ad un cadavere che, trascorrendo il tempo, emana un fetore sempre più insopportabile.
di Gianni Festa