Corriere dell'Irpinia

Avellino ricorda i bombardamenti del ’43. Il sindaco Nargi: ripartire dalla forza della comunità che seppe rialzarsi dopo la tragedia

“Non potrò mai dimenticare la pioggia di bombe su Avellino”. Aveva sette anni Eliseo Pasqua quando il 14 settembre del ’43 Avellino veniva travolta dalle bombe. I morti furono tremila, tantissimi nella piazza del Popolo dove si teneva il tradizionale mercato. Ciascuno cercò di mettersi in salvo come poteva. La città fu letteralmente abbandonata a se stessa, dopo la fuga di tutte le autorità civili, militari e sanitarie. Oggi, dopo 81 anni, Eliseo, insegnante elementare e poi impiegato alle Poste, ha voluto essere presente alle celebrazioni nell’anniversario dei bombardamenti per non dimenticare l’orrore di quei giorni: “Fuggimmo verso le campagne di Montefredane dove il nonno aveva una casa e lì siamo rimasti per quindici giorni. La paura era tanta. Vedevo Avellino sotto una pioggia di bombe. Una sofferenza senza fine”. Con lui, anche alcuni familiari di coloro che persero la vita quel 14 settembre, insieme ad associazioni combattentistiche, a partire dai marinai d’Irpinia. Il sindaco Laura Nargi sottolinea l’importanza di ricordare “Rendiamo omaggio alla memoria dei tremila morti della tragedia dei bombardamenti del ’43 ma vogliamo anche ricordare l’orgoglio della comunità che seppe rialzarsi e reagire. Dobbiamo ripartire da quel senso di comunità”. Terribili le scene consegnate dal professore Cannaviello “Un rustico carretto che tirato da un mulo si dirigeva al cimitero incurante del pericolo incombente. Sul carretto era disteso un cadavere avvolto in una coperta, dalla quale si intravedeva la bionda testa d’una donna: l’insegnante primaria Gina Santulli mitragliata nella seconda delle otto ondate della giornata. Accanto a lei sedeva esterrefatto il marito, Ennio Valentino e fiancheggiavano il rozzo veicolo due giovinetti in cupo raccoglimento: i figliuoli”

Eppure sono ancora una volta in pochi a partecipare alla cerimonia, a conferma di quanto si faccia fatica a mantenere viva la memoria della storia della città, uno sforzo che appare ancora più arduo dopo la scomparsa di storici come Andrea Massaro e Armando Montefusco. Nessun tentativo neppure di consegnare quella memoria alle nuove generazioni, anche a causa dei pochi testimoni rimasti e della difficoltà di coinvolgere gli studenti, essendo quasi tutte le scuole chiuse il sabato. Allo stesso modo, risulta sempre più difficile trasmettere il ricordo di quella tragedia alla città come pure si cercò di fare lo scorso anno quando furono proiettate videoinstallazioni che rievocavano i bombardamenti sulla facciata del Rosario. A caratterizzare la cerimonia, come ogni anno, la deposizione della corona al monumento di piazza del Popolo e la santa messa officiata dal vicario Pasquale Iannuzzo che spiega “I bombardamenti del ’43 rappresentano una ferita ancora aperta per la città ma siamo chiamati a restituire un senso a questa sofferenza perchè si trasformi in grazia”. A partecipare alla cerimonia, insieme al sindaco Nargi e ai rappresentanti delle forze dell’ordine, anche il vicesindaco Marianna Mazza, il presidente del Consiglio comunale Ugo Maggio e il consigliere comunale dei 5 Stelle Antonio Aquino.

Una tragedia, quella dei bombardamenti, che fu certamente uno delle pagine più tristi della storia di Avellino, ma che pure vide emergere eroiche figure di religiosi e volontari, che divennero un nobile presidio di solidarietà umana. Il 9 settembre gli alleati erano sbarcati a Salerno e per impedire alle truppe tedesche di spingersi verso la costa venne deciso di distruggere le vie di comunicazione, a cominciare dai ponti, quello delle Ferriere ad Avellino e quello di Montesarchio, nei pressi di Benevento. Cominciò così la pioggia di bombe, lanciate dallo stormo di 36 areoplani bombardieri

“La città – scrive Matteo Claudio Zarrella nel suo volume dedicato ai bombardamenti del ’43 – fu colpita nel suo centro antico, alla via della Ferriera, nelle popolose zone del Triggio, di piazza del Popolo e di piazza della Libertà. Per forza d’urto e spostamenti d’aria. racconterà Umberto Sarchiola, otto o nove lastroni di pietra si staccarono dal lastricato e balzarono sulla tettoia del cinema Umberto sfondandola; un basolo saltò come lanciatovi da una catapulta, su un suo palazzo di tre piani di Palazzo Libertà. Due contadine morirono schiacciate una sull’altra, sbattute dalla furia di uno spostamento d’aria in un portone tra via del Triggio e piazza del Popolo. Il vecchio professore Vincenzo Cannaviello  stava attraversando la piazza quando fu sorpreso da quell’uragano di bombe. Scaraventato a terra, colpito  da un rottame alla gamba, con la vista annebbiata da una fitta nube di polvere, si trascinò carponi, scavalcando un cadavere fino all’imbocco di via Trinità. dove si affidò alle prime cure di Albina della Bruna che gli diede da bere. Il dottor Ugo Tomasone intervenne a sorreggerlo ed il  professore Giovanni Luongo quasi di peso lo trascinò fino a casa. Il professore non dimenticherà mai i gesti e le parole dei suoi soccorritori”. “Non tutti i malcapitati – scrive ancora Zarrella – trovarono mani pronti a soccorrerli. Palmira Pellecchia, una vedova che faceva la sagrestana nella piccola chiesa di San Ciro, sprofondata sotto le macerie di una casa di tre piani, col corpo interrato e la testa sporgente, mendicava un aiuto, una mano protesa che la tirasse fuori da quella sepoltura. Tra le maceria si sentiva la sua voce implorante “soccorretemi…se no che sarà delle mie povere ragazze? Fate quest’opera di carità per loro”. Ma non fu possibile aiutarla…Una bomba aveva colpito l’Episcopio facendo crollare  una parte della stanza dove fino a poco tempo prima si era trattenuto il vescovo Guido Bentivoglio. Il vescovo si sentì miracolato. Sospinto verso il balcone da uno “scoppio formidabile, da uno scuotimento parossistico dell’edificio”,  dal cadere di calcinacci dallo scardinarsi degli infissi, dall’infrangersi fragoroso dei cristalli. Gli parve che tutto l’Episcopio e la stessa città stessero per precipitare ‘sotto il piovere del ferro e del fuoco dell’alto”. Tante le storie che prendono formo nella ricostruzione “sopraggiunse anche Padre Innocenzo della chiesa della Vittoria. Con la sua solita calma confortava i morenti, aiutandoli a sorseggiare il liquore che aveva portato con sè. Era passata poco più di mezz’ora quando sopravvenne, spietata, un’altra incursione aerea. Altre bombe, altri morti, altre rovine. Questa volta ad essere colpita era la zona del Corsi. Tra i morti il medico Manlio Papa e i suoi due figlioli. Uno dei pochi medici a non lasciare il suo posti. Aveva cercati con i due figliuoli inutile riparo nell’ampio giardino retrostante l’abitazione. Tra i resti dell’eccidio una scarpetta di bimbo di color rosa con un piede rimastovi conficcato come una formella. Una bomba aveva aperto uno squarcio nel penitenziario di piazza D’Armi. Un varco inaspettato per un gruppo di carcerati che presero a vagare smarriti sotto l’infuriare delle bombe”

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