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Contraddizioni a Cinque Stelle

 

Sono trascorsi più di quattro anni dal suo esordio sul palcoscenico politico, eppure il Movimento 5 Stelle non è ancora riuscito a risolvere la contraddizione che lo accompagna: si è confermato come il più efficace collettore della protesta sociale e della rabbia antipolitica, ma ha fin qui fallito alla prova del governo e della selezione di una classe dirigente alternativa a quella anche giustamente contestata. Un’antinomia che peraltro condivide con altri movimenti di radicale contestazione del sistema sorti più o meno contemporaneamente in Europa in seguito al fallimento dei leader tradizionali, rivelatisi incapaci di elaborare programmi in grado di difendere le rispettive società dalla concorrenza della globalizzazione. L’esempio più illuminante è anche quello che ha avuto maggior successo: Syriza, la coalizione di sinistra, socialista, anticapitalista, no global, che in Grecia ha sbaragliato le forze politiche tradizionali di centrodestra e di centrosinistra vincendo per due volte le elezioni sulla base di un programma di riscossa nazionale contro i diktat economici dell’Europa e del Fondo monetario ma poi, una volta al potere, ha accettato supinamente le politiche restrittive imposte da Bruxelles, Berlino e Washington. In Italia, il movimento fondato da Beppe Grillo non è ancora a questo punto, ma la deriva sembra segnata. Dopo l’esordio alle amministrative e alle regionali siciliane nel 2012, venne l’inatteso successo alle politiche del 2013, quando il M5S si affermò come secondo partito nazionale, posizione mantenuta ancora oggi nei sondaggi, nonostante le non brillanti performance nelle amministrazioni locali conquistate (a cominciare da Roma, la più prestigiosa e impegnativa, ma finora fallimentare per la sindaca Virginia Raggi) e le incomprensibili piroette in tema di alleanze al Palamento europeo. La contraddizione si spiega con la permanente frustrazione degli elettori, insoddisfatti dell’offerta politica, pur variegata in un panorama notevolmente frammentato. A inizio d’anno, il rapporto Demos sullo Stato e gli italiani, curato da Ilvo Diamanti per “La Repubblica”, ha confermato una grande voglia di partecipazione politica (del resto l’alta affluenza al referendum del 4 dicembre ne era stata una spia eloquente), ma anche una profonda insoddisfazione e un profondo distacco dal “palazzo”. In particolare, i partiti, con il 6% del consenso, sono in fondo alla graduatoria della fiducia nelle istituzioni (al primo posto c’è papa Francesco con l’82%), e un italiano su due ritiene che la democrazia possa fare a meno dei partiti. L’unica istituzione che si salva è la presidenza della Repubblica, apprezzata dal 49% degli intervistati. Commentando i risultati del rapporto, Diamanti scrive, correttamente, che lo stesso referendum “nella percezione generale, assai più della Costituzione, riguardava il sistema politico e di governo”. Se questa è la radiografia dell’Italia di oggi, non c’è da meravigliarsi se il Movimento 5 Stelle, formazione antipolitica per eccellenza, riscuota ancora grande successo e soprattutto coaguli grandi aspettative. A prescindere, si direbbe, dalle prove fin qui fornite. Alla luce di queste considerazioni, e poiché non è ipotizzabile che nei pochi mesi che mancano al termine naturale della legislatura (febbraio 2018) i grillini riescano a conseguire una maturità politica finora neppure sfiorata, si comprende perché, invece di inseguire improbabili chimere di voto anticipato, sarebbe opportuno che le forze politiche che si riconoscono nello schema della democrazia dell’alternanza tentino di consolidare il sistema consentendo al governo Gentiloni di proseguire per la sua strada, in continuità programmatica col governo Renzi ma con una specifica cifra di rassicurante moderazione, bene accolta dall’opinione pubblica. Un successo del governo consoliderebbe il sistema; un altro trauma farebbe ancora una volta il gioco dell’antipolitica.
edito dal Quotidiano del Sud

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