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Di Dato racconta l’economia e la società in Alta Irpinia nell’Ottocento

E’ la centralità della terra nelle relazioni sociali ed economiche ad emergere con forza dallo studio di Ferdinando Di Dato “Economia e società in Alta Irpinia nell’Ottocento. Vallata tra il 1860 e il 1880”. Lo sottolinea Francesco Barra nella prefazione, evidenziando come lo spaccato che consegna il saggio è quello di un’economia rurale di tipo arcaico che neppure la caduta dell’ancien regime e l’eversione della feudalità riusciranno a trasformare. “Liberati altresì dal peso delle terraggio del feudatario, che l’esigeva sulla pretesa che l’intero territorio fosse feudale, e dalle analoghe decime prediali ecclesiastiche, – spiega Barra – il vecchio ceto degli armamentari si era trasformato in proprietari fondiari, adibendo i pascoli a colture crealicole, mentre artigiani e pastori erano divenuti piccoli conduttori agricoli, rafforzando ed estendendo quella piccola proprietà che già da tempo si era formata. Ma è pure significativo il fatto che con il tramonto dell’armentizia, gli enormi pascoli ora adibiti a coltura dovessero essere affidati ad agricoltori dei casali di Trevico, per evidente insufficienza  della forza lavoro locale”. Di Dato, docente di storia nei licei e ricercatore attento, si sofferma sulla centralità che l’allevamento e la commercializzazione del bestiame avevano rivestito per Vallata, anche in virtù della vicinanza dei pascoli del Tavoliere, lungo il tratturo Pescasseroli-Candela, a cui la comunità irpina forniva il legname dei boschi e le braccia dei suoi uomini. Un mondo travolto delle trasformazioni socio-economiche ma incapace di generare un nuovo modello di sviluppo fino alla crisi agraria. Un lavoro nato dallo studio rirgoroso dei documenti di Prefettura, del Catasto napoleonico e dei Protocolli notarili che testimonia i molteplici modi in cui la terra diventa oggetto di scambio mercantile nella comunità di Vallata e nei territori vicini. “La zona – spiega Di Dato – non sorretta da strutture aziendali e produttive non beneficiò neanche della politica liberista del primo ventennio unitario, che favorì in un certo qual modo l’agricoltura specializzata come il vigneto, il noccioleto, l’agrumento, non certo, il grano(….)L’Alta Irpinia, quindi, arrivò alle soglie della grande crisi agraria degli anni ‘80 dell’Ottocento in una situazione precaria che poi sarebbe esplosa drammaticamente, quando il prezzo del grano sarebbe crollato per effetto della concorrenza americana”.
L’autore analizza i dati che emergono dalla compravendita della terra nel periodo dal 1860 al 1880, dati che attestano come solo il 5,27% della terra fosse stato ceduto a un diverso proprietario. “Ci troviamo di fronte – spiega – ad una proprietà terriera ben consolidata che evidenzia la presenza di un ceto di proprietari benestanti”. Un’elite che non ha nessun interesse a vendere, se non perchè indebitata e tebde a rafforzarsi a discapito dei ceti più poveri. Ma ad emergere è anche la marginalizzazione commerciale dell’Irpinia, determinata dalla costruzione della linea ferroviaria Napoli -Benevento-Foggia che tagliò il Principato Ulteriore dalla via dell’intermediazione commerciale tra Puglia e Napoli e dalla politica economica del nuovo stato, prima liberoscambista e poi protezionista che non avvantaggiò il Mezzogiorno. A dominare il mercato della terra figure di notabili come don Biagio Gallicchio e don Gaetano Pelosi, in prima linea anche nell’attività creditizia necessaria per iniziare la produzione agricola. Ecco perchè, ci ricorda Di Dato, dopo l’unificazione, in mancanza di organismi creditizi, si consolidarono forme di anticipazioni in denaro e in semenza ai lavoratori agricoli con restituzione in derrate che consentivano speculazioni giocate sul ciclo annuale dei prezzi. La terra non era considerata, dunque, un investimento di tipo capitalistico, era piuttosto il mezzo per ottenere un prestito nei momenti di bisogno, simbolo e garanzia di uno “stato sociale”. Nè i fittavoli avevano libertà d’iniziativa nei terreni, a decidere sistemi e i tipi di coltivazione erano sempre i proprietari, interessati solo alla rendita. Tutto questo mentre i contadini venivano privati anche degli antichi diritti della società rurale come la possibiltà di fare legna o di far pascolare gli animali nei boschi comunali.

 

 

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