Che questo momento sia all’insegna dell’improvvisazione anche nel nostro paese è testimoniato, oltre che dalla vicenda dei profughi, anche da quanto sta avvenendo nel duro scontro tra governo e magistratura. Conflitto che, in realtà, mette a dura prova la stessa vita democratica. Occorre al più presto riportare la vicenda nei binari corretti agendo con etica della responsabilità e, nella distinzione di ruoli, concorrere a pacificare osservando il rispetto delle regole. Detto con chiarezza il governo, a mio avviso, bacchettando tutte le altre istituzioni, statali e non (penso al sindacato) non trasferisce serenità alla comunità nazionale. Penso, ad esempio, all’atteggiamento assunto dal premier nei confronti del referendum per le riforme. La Costituzione italiana è una pietra miliare nella convivenza civile. Essa è il frutto di chi avendo vissuto la negazione della libertà sentì forte il bisogno di garantirla attraverso norme espresse nel solo interesse della comunità nazionale. La Carta fu il frutto dell’esperienza della Resistenza e della Liberazione. Ora, ridurre tutto questo ad una vicenda personale è un gravissimo errore. Il premier dovrebbe essere garante della vita democratica e non personalizzare il referendum come se si trattasse di una sfida casareccia. “Se perdo torno a casa”, è solo una provocazione inaccettabile. Speriamo che il tempo gli restituisca capacità di giudizi, facendolo diventare arbitro e non tifoso interessato. E’ evidente che inciderà sul futuro del governo anche il risultato elettorale amministrativo del prossimo 5 giugno. Il test è molto importante perchè dovranno essere rinnovati comuni come Milano, Roma e Napoli, per citare solo le maggiori città con notevole densità abitative. La vigilia della presentazione delle liste è stata tormentata, mentre irrompe una grande questione morale che riporta alle negatività della tangentopoli degli anni Novanta. Il dissenso monta e l’incertezza dei risultati non aiuta a ritrovare la strada maestra. In Campania, ad esempio, dove alle urne sono chiamati quattro capoluoghi di provincia su cinque (Napoli, Salerno, Caserta e Benevento) la competizione si presenta con grandi incognite. Napoli è travolta da un pericoloso qualunquismo, mentre il Pd ha scelto l’imposizione delle candidature che ora veleggiano tra non poche difficoltà
E in Irpinia? Nella formazione delle liste vince il becero clientelismo e tentativi di voto di scambio. In una notte personaggi che avevano giurato fedeltà ad un candidato sindaco sono stati riassorbiti dall’avversario sulla base di qualche promessa di presidenza fatta da chi usa la Regione solo per patti di potere. Tuttavia c’è una importante novità che emerge dalla presentazione delle liste. E’ la latitanza dei simboli dei partiti, con qualche rara eccezione. Essa è figlia di una crisi della politica, ma anche delle difficoltà che incontrano i partiti (o meglio, ciò che di essi rimane) nel persuadere le comunità che chiedono risposte ai bisogni. E’ vero. Il civismo come rinuncia di appartenenza si è sempre sbizzarrito nella ricerca di simboli ad effetto: colomba, ulivo, torri e tanti altri riferimenti tendenti a dare certezza nel futuro hanno affollato le competizioni comunali. Non così si verificava nel passato nei grandi centri in cui i partiti ci mettevano la faccia con il proprio simbolo. Ed è qui la straordinarietà di questo turno elettorale: il ritorno di uno sfrenato personalismo. Come dire: al peggio non c’è mai fine.
edito dal Quotidiano del Sud
di Gianni Festa