Di Monia Gaita
Un poeta, e non so se lo sono, sente la propria terra, la vive, ne registra e ne assorbe i cambiamenti. Ho voluto dire qualcosa sulla nostra terra. La prima poesia è uno sguardo sul Sud attraverso i secoli, nella seconda parlo dell’emigrazione immaginando di essere una donna che va al Nord per lavorare in un’industria tessile. Grazie di cuore per aver dato voce a chi come me sceglie la parola come strumento di sommossa, di lotta e insurrezione.
Troppi secoli
Troppi secoli ci hanno ingobbito le spalle,
troppi dominatori ci ingiunsero il silenzio,
troppi i fastelli dei morti senza nome,
troppe speranze fiaccate e fermentanti.
Troppo sconforto a frizionare i muri,
troppe le frotte dei miti e dei perdenti,
troppe promesse sofferte e soffocate.
Questo è il mio Sud,
le classi subalterne, l’impunità dei falsi,
il malcontento.
Questo è il mio Sud,
la guarnigione degli inganni,
e la genìa della giustizia elusa
e degli stanchi.
Questo è il mio Sud,
dei proletari e degli inermi,
dei laureati che infilano l’attesa
dentro un guanto,
degli esiliati dal lavoro,
dei lucri e dei profitti
che vivono infossati
come granchi.
Oggi guardo la morte del mio Sud,
un’arca di rinuncia
che s’inquadra
tra le tegole e le insegne.
Oggi guardo la morte del mio Sud,
col sudore del tedio
che rovista il coraggio
a palmo a palmo.
Oggi tutto sa di ingiuria
e insufficienza.
E io non so infoltire
nell’ardore che corrusca
tra i castagni.
Ho solo convocato qualche voce
dal consiglio dei secoli…
Ma la desolazione non passa.
Non passa la bestia che ci spinge
alla deriva:
è sangue secco,
è sfregio dell’origine
alla benda.
Sono partita
Sono partita,
ho fatto scorta di verde
e sono andata.
Ora m’immergo
nell’emicrania dei montaggi,
dei contafili azionati dai pulsanti.
Quando ho riavvolto
la storia dei miei anni,
gli esami, lo studio, le rinunce,
avevo l’amarezza di un cratere
dentro il petto.
Non è servita la mia laurea.
Ha traslocato
di ripostiglio in ripostiglio,
in molti vuoti navigabili,
nella peluria del soffione
quando vola e si disperde.
Sono partita,
ma non dimentico l’Irpinia.
Resto ancorata
all’utero dei campi,
covo la prole delle spighe,
la proteggo
fino al millimetro finale
della schiusa.
L’Irpinia mastica i suoi figli
e li sospinge
dove si ingrossano
gli ovari della nebbia
e il traffico del centro
s’attacca con l’uncino dei rumori
sulla pelle.
Sono partita,
ma non dimentico l’Irpinia.
E mi strofinano gli omeri delle vigne,
la cartilagine del vento
e delle piante.
E quando il forno pone a bollore
l’acqua dei ricordi,
io estraggo dall’archivio
gli annegati,
corazzo le mie gambe
col tronco dei castagni.
Sono partita,
ma non dimentico l’Irpinia.
L’Irpinia delle chiese e delle volpi,
l’Irpinia delle pale,
dei carpini, dei faggi,
l’Irpinia con le tempie
corrotte dal moderno.
Io non dimentico l’Irpinia,
l’Irpinia di mio nonno
con gli occhi da brigante.
Irpinia madre,
Irpinia del mio sangue.