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E adesso facciamo i conti

 

In direzione faremo i conti. E’ stata la minaccia che Renzi ha rivolto alla minoranza interna al Pd che continua a infastidire il manovratore. Un linguaggio più da imperatore che da democratico reggitore di un partito e soprattutto di un governo. “Guai ai vinti” non è proprio un refuso storico ma si adatta ad una stagione in cui il potere leaderocratico sta debordando anche nell’eloquio. L’Associazione per la storia della lingua italiana qualche mese fa ha tenuto a Napoli un importante convegno sul linguaggio della politica. Evidenziando che i politici ormai inseguono solo i media e per conquistare le prime pagine dei giornali si affidano ad un linguaggio triviale e persino banale. La politica dissacra sempre di più l’italiano, frantuma la sintassi, mortifica l’uso di tempi e dei verbi tra cui il congiuntivo, ormai messo al bando, anche perché è il modo del dubbio che non assale mai Renzi. La partitocrazia della Prima Repubblica si alimentava di un armamentario linguistico a sfondo ideologico, sostituito con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica da nuovo linguaggio più adatto all’antipolitica a al populismo che ormai la fa da padrone. L’inventore di questo nuovo corso fu Berlusconi che per demolire la prima Repubblica già sfasciata dalla magistratura si affidò a un linguaggio dissacrante,frivolo e soprattutto egocentrico. Sfruttando le sue grandi qualità di comunicatore ed esperto di televisione mandò all’apposizione gli eredi della Dc e definitivamente in soffitta la lingua paludata dei Padri della Patria. Negli anni ’90 a rompere le regole del linguaggio rigorosamente istituzionale fu la Lega di Bossi con l’uso di costrutti linguistici che oscillano tra il priapistico celuderico “ I padani ce l’hanno duro”, ad un linguaggio antimeridionale e razzista “Senti che puzza scappano anche i cani sono arrivati i napoletani”. Con Salvini la Lega cambia pelle ma anche lingua. Dalle provocazione antropologiche alle provocazioni anatomiche sul fondo schiena della Boschi, definita “ministra sculettante”. Un cambio solo zeppo di volgarità e spesso teso alla demolizione dell’avversario. Fassina chi? Fu la frase demolente di Renzi contro il suo acerrimo avversario interno. Una locuzione non proprio elegante come l’ultima in ordine di tempo sulla resa dei conti interna al Pd con una sinistra che è sempre più incalzante contro di lui. La trasformazione della politica attraverso il linguaggio è avvenuta anche nella sinistra, dove Renzi ha introdotto termini che poco si adattano al riformismo. Prima si è rivolto ai delusi suggestionandoli con la rottamazione e dissacrando così il Tempio della politica dove non c’è più posto per il sinedrio degli anziani e soprattutto poco rispetto per i nemici soprattutto quelli interni al partito. Il linguaggio di Renzi è sideralmente distante da quello di Andreotti che non si rivolgeva ai suoi nemici con le ingiurie, né lanciava anatemi ai giornalisti che pur non erano teneri nei suoi confronti e nei confronti della Dc. E così ai commentatori che definivano i suoi governi come l’esercizio di un tirare a campare lui non rispondeva con volgari invettive ma con la felice espressione: “E’ meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Oppure a chi, in modo infamante, insinuava la collusione tra la Dc e la mafia sostenendo che il partito di maggioranza aveva molti scheletri nell’armadio non rispondeva lanciando insulti ma seraficamente controbatteva: “nei nostri armadi ci sono solo abiti da sera”. La politica non ha più valori, non è ispirata da una etica ma non ha nemmeno più un linguaggio corretto. Ormai è senza la Parola!
edito dal Quotidiano del Sud

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