di Rosa Bianco
Ci sono momenti in cui la cultura smette di essere un esercizio intellettuale e torna a essere ciò che è sempre stata nella sua essenza più profonda: un incontro tra esseri umani. iIeri pomeriggio, al Caffè Hope di Avellino, questo incontro ha preso forma concreta, vibrante, quasi palpabile, durante la presentazione del libro “È normale che…” di Rino Cillo.
Nel pomeriggio la sala si è subito gremita, colma di un pubblico curioso e attento, richiamato non solo dall’autore, ma da un’atmosfera che prometteva riflessione, emozione, appartenenza. E le promesse, raramente così alte, sono state mantenute.
Le parole che hanno aperto la serata – quelle istituzionali di Elvira Napoletano e Pasquale Luca Nacca – non sono state un semplice prologo, ma un invito a riconoscere la letteratura come spazio civile, come presenza viva nella città. Avellino, ancora una volta, ha saputo mostrarsi luogo di cultura reale, non di circostanza.
Poi, poco alla volta, il dibattito ha preso corpo.
La critica letteraria Rosa Bianco e la docente Rossella Napoli hanno guidato il pubblico dentro le pieghe dell’opera con una lettura lucida, appassionata, rigorosa. Le loro voci si sono intrecciate a quelle degli altri partecipanti, creando un dialogo fitto, spontaneo, a tratti persino commosso. Perché “È normale che…” non è un libro che si legge a distanza: chiama, coinvolge, chiede di essere attraversato.
E le letture scelte, affidate a Mena Matarazzo e allo stesso autore, hanno rappresentato il punto di svolta emotivo della serata. Alcuni brani hanno provocato sospiri trattenuti, altri hanno strappato sorrisi, altri ancora hanno portato un silenzio carico di significato, quel silenzio che in una sala affollata acquista il valore di un rito collettivo. Si percepiva chiaramente che non erano soltanto i presenti a essere toccati: anche coloro seduti al tavolo – l’autore, la professoressa, la critica – vivevano, insieme al pubblico, la stessa emozione, la stessa vibrazione, che nasce soltanto quando la letteratura compie il suo miracolo.
Il libro è, infatti, un racconto intimo e vivo, simile a una narrazione spontanea davanti al focolare. Il tema centrale è il “ri-cordare” inteso come riportare al cuore: in questo suo terzo lavoro letterario Cillo non si limita a ricordare, ma ricuce e rimette in circolo frammenti della propria esperienza. Episodi familiari, storie di viaggio, memorie dell’Irpinia e momenti di leggerezza o malinconia diventano materia di un movimento continuo. La memoria, così, non è un archivio immobile, ma è memoria attiva, una forza vitale capace di dare nuovo senso al passato.
L’esperienza è stata resa ancor più intensa dall’intervento musicale di Mayumi Ueda e dall’installazione di Dorotea Virtuoso: due forme d’arte che non hanno accompagnato la presentazione, ma l’hanno ampliata, trasformandola in un’esperienza multisensoriale, un vero attraversamento tematico ed estetico.
A chiudere il pomeriggio, la voce di Rino Cillo. Non una voce di circostanza, ma un racconto intimo, lucido, talvolta ironico, in cui l’autore ha restituito l’origine del suo lavoro e, insieme, la sua più profonda destinazione: parlare dell’umano, delle sue fragilità, delle sue dinamiche quotidiane, di ciò che troppe volte riteniamo “normale” senza concedergli dignità narrativa.
È stato questo, in definitiva, il cuore dell’appuntamento: la capacità della parola scritta di riunire, di far riflettere, di commuovere, di spingere una comunità – piccola o grande che sia – a riconoscersi.
Avellino, ancora una volta, ha dimostrato di saper accogliere la cultura non come ornamento, ma come linfa. E il pomeriggio di ieri al Caffè Hope è diventato un luogo distinto: un laboratorio di idee, un teatro dell’emozione, una casa per chi crede che i libri possano ancora cambiare il nostro modo di guardare il mondo.







