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Fine del maggioritario Tutti a casa? 

Dopo Alessandro Di Battista, Roberto Maroni. La campagna elettorale appena iniziata semina vittime sul terreno prima ancora che gli elettori – il prossimo 4 marzo – decidano chi lasciare a casa fra le migliaia di candidati che si sfideranno per i 945 posti in palio fra Camera e Senato, oltre ai Consigli regionali di Lombardia e Lazio che verranno rinnovati nella stessa data (il Friuli- Venezia Giulia in omaggio allo statuto di autonomia non ha aderito all’election day e quindi andrà alle urne a maggio).

Certamente, per Di Battista e Maroni il termine “vittime” è improprio, perché i due leader hanno deciso autonomamente di chiamarsi fuori dalla competizione accampando motivi “personali” peraltro non omologabili. L’uno, il parlamentare più amato dalla base grillina e dallo stesso fondatore del movimento, perché folgorato dalla recente paternità che, parole sue, ha rivoluzionato il suo mondo; l’altro, il presidente uscente della Lombardia, perché, avendo raggiunto l’obiettivo di aprire la trattativa col governo nazionale per i nuovi poteri della regione, ritiene di poter chiudere una stagione politica in attesa di esplorare nuovi orizzonti.

Il fatto è, però, che nessuno dei due pensa di ritirarsi a vita privata. Di Battista promette di partecipare attivamente alla campagna elettorale (ma finora non si è speso molto), e intanto pensa di dedicarsi alla controinformazione e “alla ricerca di politiche innovative a livello mondiale” (non per nulla celebriamo i cinquant’anni del ’68: l’immaginazione al potere).

Maroni, molto più concreto, attacca frontalmente il capo della Lega Matteo Salvini, dandogli dello stalinista malato di estremismo, ed è adeguatamente ricambiato: “Nessuno è indispensabile”. Per entrambi vale dunque il sospetto che il passo indietro sia solo un espediente tattico, un mettersi momentaneamente da parte per prepararsi alla vera competizione, che si aprirà quando le urne di marzo avranno spazzato via le leadership “forti” che si scontreranno nelle prossime settimane: Salvini e Di Maio, appunto, ma anche Renzi sull’altro vertice del triangolo. Tre protagonisti di una stagione politica coltivata all’insegna del maggioritario e della personalizzazione dello scontro, ma che ora è destinata a concludersi, perché il proporzionale favorisce le coalizioni ed esige leader capaci di mediare fra esigenze diverse alla ricerca di una politica dialogante e inclusiva. Non è un caso se alla stagione del maggioritario che finisce sopravvivrà solo il suo inventore, Silvio Berlusconi, costretto suo malgrado a non partecipare alla contesa in quanto non candidabile, ma per ciò stesso in condizioni di dare le carte dopo il voto (se le urne gli avranno sorriso), distribuendole prima all’interno della sua coalizione, e quindi privilegiando il dimissionario presidente della Lombardia rispetto al presuntuoso capo di una Lega che è “diversa” da quando “non ha più la parola Nord”. E non è un caso se nello schieramento di centrosinistra emerge Paolo Gentiloni, “una fortuna per l’Europa” secondo Emmanuel Macron.

Partita aperta, dunque. Ma intanto registriamo altre “vittime” del morente maggioritario. Una lo è da tutti i punti di vista, e si direbbe senza speranza di resurrezione post voto: la sindaca di Roma Virginia Raggi, plebiscitata al Campidoglio con oltre il 67% dei voti un anno e mezzo fa e dunque figlia prediletta del maggioritario, ma da allora avviata lungo un doloroso calvario. Ha gettato la spugna a fine dicembre (il mandato scade nel 2021) confessando il suo fallimento: “Non farò il bis, arrivare viva alla fine sarà un grandissimo successo”.

Altra vittima illustre è Angelino Alfano, che al maggioritario deve una carriera governativa precoce e ricca di incarichi prestigiosi (Giustizia, Interni, Esteri, Vice presidente del Consiglio con Enrico Letta), ma ha deciso di restare fermo un giro sperando di riciclarsi fra due anni alle elezioni europee, dove, appunto, si vota da sempre con il proporzionale. E si potrebbe continuare.

di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud

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