Corriere dell'Irpinia

Giustizia e dintorni: giudice stressato? Non colpevole

Un padre ed una madre accusati di violenza sessuale nei confronti della figlia. Un Tribunale (quello di Asti) che condanna il marito a 11 anni e la moglie a 6 di reclusione.

Poco male, si potrebbe pensare, per quante se ne vedono, purtroppo. Meno se ne sentono, invece, di sentenze lette prim’ancora che il difensore dell’imputato abbia preso la parola.

Immaginate la scena. Dopo aver ascoltato le conclusioni dell’accusa, processo rinviato per permettere alla difesa di spiegare le ragioni degli assistiti. All’udienza fissata, tutti pronti in aula, campanella e giudici fuori dalla camera di consiglio.

È a questo punto che accade l’improbabile: piuttosto che sedersi e dare la parola al difensore, il Collegio rimane in piedi e procede alla lettura. Di cosa? Ma della sentenza, perbacco: “In nome del popolo italiano, visti gli articoli…condanna…”.

Apriti cielo! L’Avvocato insorge, il pubblico ministero resta di sasso e il Presidente del Collegio pensa bene, anzi male, di strappare il dispositivo di sentenza appeno letto. Con la pubblica funzione e la decisione appena adottata, c’entra quanto il blu cina con il blu estoril, avrà pensato.

Come è finita? Ri-celebrato il processo, terminato anche l’appello, al padre è stata comminata una pena di 4 anni (anziché 11), mentre la madre è stata assolta dall’accusa di non aver impedito il delitto commesso dal marito (in luogo della condanna alla reclusione per 6 anni).

E la sentenza strappata, in tutto questo? Falso per soppressione in atto pubblico, il reato che aveva inizialmente addebitato la Procura della Repubblica di Milano al Presidente del Collegio giudicante, sulla scorta di una tanto dovuta quanto lacerante determinazione, stretta com’era tra l’obbligatorietà dell’azione penale ed il granitico orientamento giurisprudenziale, sul punto: non ha alcuna incidenza il fine, è sufficiente la distruzione dell’atto pubblico.

Salvo poi richiedere ed ottenere da altro giudice l’archiviazione degli atti: un errore privo di intenzione, si è stabilito.

Nel frattempo ad avviarsi è stato pure il procedimento disciplinare. Grave violazione di legge accompagnata da inescusabile negligenza rispetto al dovere di correttezza e diligenza, ha contestato il Procuratore Generale ai tre giudici.

Epperò, il CSM – ossia il giudice dei giudici, formato da giudici – commina la più blanda delle sanzioni al Presidente del Collegio, censurandolo. Assolte, invece, le due “ai lati”: non hanno di certo potuto impedire l’uscita dalla camera di consiglio, la lettura e la successiva “eliminazione” della sentenza, si è opinato.

Finita così? Ma che!

La Corte di Cassazione, chiamata dall’unico condannato a scrutinare la legittimità della decisione, svolge appieno la sua funzione e cassa, per l’appunto. Il Csm ha liquidato troppo in fretta la condizione di difficoltà vissuta dal magistrato incolpato il quale, al momento del fatto, era stressato per il troppo lavoro, si è sentenziato.

Polemiche, su polemiche, su polemiche. Ma perché, invece, non andare, come al solito, al succo della questione, cioè alla vera portata degli autorevoli precedenti?

E allora: il fallito ha strappato le scritture contabili? Si trattò di un fatale errore. Il funzionario ha omesso di adottare un atto dovuto? Stressato, troppo lavoro.

Che se ne faccia buon uso.

Gerardo Di Martino

* Il contributo di oggi non può non essere dedicato a Lorenzo, un giovane Avvocato cui la vita ha riservato troppo poco tempo per comprendere quanto fosse capace, magnanimo e dabbene. Ciao, Lori.

 

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