Corriere dell'Irpinia

Giustizia e dintorni, il caso Enzo Tortora non è stato un errore giudiziario

Enzo Tortora (foto Rai)

di Gerardo Di Martino*

Si aprono oggi, sabato 15 giugno, i lavori del Comitato Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, il sindacato dei giudici e dei pubblici ministeri italiani, con un unico punto all’ordine del giorno: polverizzare il disegno di legge del Governo sulla separazione delle carriere, sull’istituzione dell’Alta Corte disciplinare e sulla elezione, per sorteggio, dei componenti del CSM, cioè il sommo Magistrato composto da Magistrati che decide chi avanza in carriera, chi va promosso e chi nominato a capo (e vice) di Tribunali, Procure della Repubblica, Corti d’appello e Corte Suprema, nonché Sezioni e “sotto sezioni”. In breve, TUTTO.

Quasi per una combinazione, Giustizia, Caso e Storia hanno voluto che negli stessi giorni in cui si preparava e si discuteva del “grande evento”, si celebrasse l’arresto di Enzo Tortora (17 giugno 1983) e si assistesse, nel contempo, ad una delle più grandi lezioni d’oltreoceano, con le condanne di un ex Presidente degli Stati Unti d’America (oggi ricandidato) e addirittura del figlio del Presidente in carica (pena all’orizzonte, fino a 24 anni di carcere).

Intrecci non fortuiti né scritti, che consegnano un momento di riflessione nel nostro Paese a chi ha occhi per guardare.

La vicenda di Enzo Tortora non evoca l’errore giudiziario. Il tema vero, a ben vedere, è altro: l’immunità di tutti i magistrati che, mettendoci le mani, hanno sbagliato. Nessuno ha mai pagato per un disastro di tale portata. E anzi, tutti i protagonisti furono promossi, con encomio, a funzioni superiori e di grande prestigio, proprio dal CSM, il Magistrato che tutto può sui Magistrati, composto da Magistrati.

Da parte sua, il sindacato delle toghe – la stessa ANM che oggi avvia i lavori per la demolizione dell’ennesima proposta di riforma che tende a discioglierne le incrostazioni – difese a spada tratta quella rovina.

Non chiamatelo errore giudiziario, ergo. Fu piuttosto una manifestazione di forza, di arroganza, di assoluta impunità – come tante siamo stati abituati a vederne nel corso del tempo – di un potere che intese lanciare un segnale di forza e di inappuntabilità molto chiaro: nessuno pensi di poterci processare, nemmeno per una simile, quanto mai inequivoca, vergogna.

Non un errore giudiziario, dunque, ma la dimostrazione di una irresponsabilità di fondo per atti e comportamenti di un potere dello Stato (Magistratura) che, proprio in ragione di tale esclusiva e specifica natura, si differenzia dagli due (Parlamento e Governo), persino controllandoli e condizionandoli.

Ecco dunque che negli stessi giorni, lo Stato-patria della tanto vituperata subordinazione e dipendenza del pubblico ministero dal potere Esecutivo, condanna Trump e, come se non bastasse, anche Biden, il figlio dell’attuale Presidente.

Proprio lì, dove gli accusatori non sono magistrati ma avvocati, dipendono totalmente dal Governo e rappresentano lo Stato sotto la direzione e vigilanza del General Attorney, il quale altro non è che il nostro Ministro della Giustizia. In molti Stati, i Procuratori sono funzionari eletti direttamente dai cittadini e a loro rispondono, politicamente.

Proprio lì, insomma, dove parimenti non vi è obbligo di trattare tutti i fascicoli allo stesso modo epperò la gestione non è nemmeno rimessa, come da noi, all’arbitrio di un soggetto vincitore di concorso.

Non è il fato o l’errore, dunque, a generare mostri giudiziari. A cagionarli, piuttosto, è la qualità delle regole e la conformazione dell’Ordinamento. A partire da quello costituzionale, tanto amato e perciò preservato dai conservatori e reazionari di ogni parrocchia, a cui conviene da sempre buttare la palla “in tribuna”, anzi “in tribunale”, nella speranza che tutto cambi perché nulla cambi.

Guardate: non è un caso che all’Associazione Nazionale aderisca il 96% circa dei magistrati. All’autogoverno (già di per sé sbagliata) si è aggiunta una funzione piuttosto singolare, radicata solo dalle nostre parti, in ossequio alla quale la magistratura, in quanto “corpo”, si autorappresenta come sindacato nei confronti di quello stesso Stato di cui è Potere, meglio Ordine.

Non a caso, tra le regole di prudenza, quelle auree della Bibbia, frutto dell’esperienza e della saggezza, ve n’è una, la 15, di cui bisognerebbe fare tesoro, che suona più o meno così: “Non fare causa ad un giudice perché conformemente al suo parere decideranno la tua causa” (Sir. 8).

*avvocato

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