Corriere dell'Irpinia

Giustizia e dintorni, magistrati comuni e giudici apostolici

Di magistrati che hanno partecipato, dietro striscioni e bandiere, a manifestazioni politiche, cortei a favore o contro, per questo o quel diritto (che non fosse rapportato al loro stesso Ordine o al loro trattamento retributivo), nella mia vita, ne ho visti pochi.

Un motivo ci sarà. E non credo sia connesso alla mia età o alla ampiezza del mio osservatorio. Piuttosto all’idea, evidentemente maggioritaria tra gli stessi magistrati, secondo cui, a prescindere dalla possibilità di farlo, non è opportuno.

Negli anni, i circa diecimila magistrati italiani hanno scelto di condurre la propria “missione” differentemente da come ha fatto il giudice Apostolico a Catania: se siamo sottoposti alla legge e ci è conferito, in via esclusiva, un potere-dovere di interpretarla – avranno pensato, nel corso del tempo, tutti gli altri – il livello “dell’opportunità” sarà sempre diverso, e recisamente più alto, rispetto a quello di un comune cittadino, il quale ultimo – e qui la questione si fa ancora più tormentosa – è lo stesso che, presto o tardi, potrebbe finire al mio cospetto per essere giudicato della sua vita, su questioni per le quali ho pubblicamente lottato dietro una bandiera, addirittura contro il suo modo di agire.

 

Oltretutto, il mio giudizio sarà sempre “politico” – avranno opinato, nel corso degli anni, i quasi diecimila giudici che si sono comportati diversamente da Apostolico – perché è impossibile separare il modo di pensare, la formazione culturale e familiare nonché gli orientamenti sociali, partitici, ideali ed ideologici, delle decisioni adottate all’esito di un processo (come ben pensano tutti quelli che un procedimento, civile, amministrativo o penale, lo affrontano, per davvero).

Ciò che è possibile, non sempre è opportuno. E ciò che sembra opportuno, spesso, non è possibile.

Per un magistrato, in particolare per un giudice, questa sorta di adagio, per quanto appena detto, assume la connotazione di una regola di vita.

Almeno nel nostro Stato.

Sotto questo profilo, non va obliterato che sono proprio i magistrati ad aver spinto per un giudice che prima di essere, sappia apparire imparziale: tutte le volte in cui se ne è palesata l’esigenza, lo hanno ribadito Presidente della Repubblica, Csm, Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, a Sezioni Unite.

Da sempre ostili ad altre declinazioni del potere giurisdizionale e da sempre nemici di forme di reclutamento diverse da quelle concorsuali – all’americana, per intenderci, dove la nomina è politica e la scelta del giudice, rispetto ai partiti politici, dunque, è palese – gli stessi magistrati, oggi, non possono certo pretendere che il Paese trangugi, pressoché alla bisogna, un frullato intriso dell’uno e dell’altro sistema.

E qui si arriva al secondo corno del dilemma polemico: un giudice soggetto solo alla legge – che ha il potere di interpretarla e di applicarla a favore o, peggio ancora, contro la persona giudicata – potrà mai seriamente ritenere di passare inosservato se partecipa, tra urla e bandiere, alla critica di piazza di un provvedimento governativo o legislativo, peggio ancora, se contro un singolo ministro o un’associazione o un gruppo di persone?

E quante probabilità ci sono che una condotta pubblica di questo tipo non venga ripresa da chicchessia o soltanto da un curioso o da qualcuno che conosce quel magistrato, nella società degli smartphone, dei video e dei social?

Bisognerebbe meravigliarsi del contrario, ad onor del vero.

 Non vi è alcun punto di contatto, in sostanza, con le attività di dossieraggio o di controllo della vita privata ovvero delle idee.

 Più semplicemente, tutto ciò consiste in un evento che viene immortalato con la semplicità insita nell’odierno livello tecnologico di massa, soltanto perché inconsueto ed inusitato al pari della “schedatura”, se tale si ritiene, di un treno che deraglia.

Ed il paragone non l’ho scelto a caso.

Gerardo Di Martino

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