Corriere dell'Irpinia

Il Novecento che ci manca…

Di Vincenzo Fiore

Fra i candidati al Premio Strega poesia del 2024 con il suo Libro delle bestemmie, vincitore del prestigioso Premio Camaiore nel 2016 con Luce nera, Nicola Vacca rappresenta attualmente una delle voci di maggior rilievo della poesia e della critica letteraria italiana. Il poeta nato a Gioia del Colle nel 1963, è ora tornato in libreria con Mi manca il Novecento (Galaad Edizioni, 2024); un testo questo che omaggia e riscopre l’immenso patrimonio letterario del secolo scorso.

Cosa le manca di più del Novecento?

Il Novecento che mi manca è soprattutto quello che ha inventato uno stile fondato sulla grande ricchezza di una società letteraria. Questo fa del Novecento una stagione irripetibile. Se guardiamo all’oggi vediamo solo decadenza, egoismo autoreferenziale, nella cultura e nella letteratura solo altissima miseria.

 

Il romanzo per Kundera è un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola del mondo. L’insostenibile leggerezza dell’essere, lei scrive, entra nelle profondità dell’agire umano e rappresenta una sorta di viaggio della memoria poetica di un popolo che aveva perso la libertà. Conviene con l’idea che, probabilmente, più di molti altri, lo scrittore boemo avrebbe meritato un riconoscimento come il Nobel?

Kundera è un Nobel mancato. Lo scrittore boemo è un gigante del Novecento. Con la sua opera ha interpretato il disagio di un secolo, le sue contraddizioni, ma soprattutto basandosi sulla sua esperienza ha denunciato il peso ingombrante e devastante del totalitarismo. Occorre leggere e rileggere Milan Kundera, uno scrittore che ha superato la prova del suo tempo. La sua arte del romanzo è una furia stupenda, nella sua scrittura troviamo un senso radicale di rivolta, un amore profondo per la libertà. In tutti i suoi romanzi Kundera esprime l’orrore della Storia, che lui definisce una forza ostile e disumana, la quale, pur non essendo invitata né desiderata, invade dall’esterno le nostre vite e le distrugge. Kundera meritava il Nobel, più di molti altri. Continuiamo a leggerlo, perché è uno scrittore che ha ancora molto da dirci.

Quasi nessuno più oggi legge Paul Éluard, comincia così il suo omaggio al poeta francese. Eppure, forse sarebbe utile leggere i suoi versi sulla libertà come antidoto ai rigurgiti neofascisti oggi sempre più frequenti…

Assolutamente sì. La poesia di Éluard ha una potenza evocativa ed espressiva. In questo momento leggerlo non sarebbe solo un antidoto ai rigurgiti fascisti e populisti. La grande poesia di Éluard arriva al lettore di oggi con la sua vocazione alla testimonianza. Siamo davanti a un poeta che non si è sottratto alle dinamiche del suo tempo. In ogni suo verso ha chiamato le cose con il loro nome. E questo prima di ogni cosa deve fare un poeta. Éluard nelle sue poesie ha scritto di pace, libertà, coraggio, temi oggi molto attuali, valori minacciati che abbiamo il dovere di difendere dalla barbarie populista che avanza. Leggere oggi Éluard significa schierarsi dalla parte della civiltà.

 

Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere, è stato un esempio dello straordinario risultato della contaminazione fra i diversi saperi. Oggi soffriamo di una tendenza settorializzante, di punti di vista sempre più parziali?

Il Novecento con la sua civiltà letteraria è riuscito a imporre un modello culturale oggigiorno completamente ignorata sia dall’editoria che dagli autori delle nuove generazioni. La ricchezza letteraria del nostro Novecento, di cui Leonardo Sinisgalli è un simbolo, resta un baluardo da difendere e da riscoprire oggi che il nostro mondo culturale naviga a vista in uno sfacelo senza contenuti.

 

Nello sconfinato patrimonio letterario del secolo scorso, vi è secondo lei un’opera o un autore che non hanno avuto il successo che avrebbero meritato? E in Italia?

Gli scrittori presenti nel mio libro sembrano essere stati tutti dimenticati e oggi sono poco letti. Ennio Flaiano, Carlo Levi, Ignazio Silone, Alberto Moravia, per fare alcuni nomi. Se penso alla nostra letteratura mi viene in mente il nome del grande Guido Morselli. Lui sì che avrebbe meritato in vita il giusto riconoscimento. A Guido Morselli il mondo editoriale e culturale della sua epoca doveva tutto, ma quel tutto gli è stato negato. E lui, incapace di sopravvivere alla sua stessa sensibilità, si è tolto la vita. La fama postuma dimostra che questo scrittore straordinario non meritava, in vita, così tanto disprezzo e indifferenza.

 

Senza molti giri di parole lei sottolinea «l’attuale decadenza della letteratura», quali sono a suo avviso i maggiori sintomi di questa diagnosi?

Siamo passati dalla fertile ricchezza del Novecento al miserabile vuoto della cultura contemporanea. Dalla letteratura come messaggio, come vocazione alla letteratura come mercato il passo è stato breve. Il Novecento non si può archiviare anche con le sue contraddizioni, ma oggi la cultura si è adeguata al suo tempo liquido e ogni giorno nasce uno scrittore che pretende solo un palcoscenico.

 

In conclusione, fra i vari libri, scrittori e divagazioni – per citare il sottotitolo del suo libro – di cui ha trattato, può indicarci tre letture che sono state fondamentali nella sua vita e per la sua formazione?

Squartamento di Emil Cioran, l’intera opera di Leonardo Sciascia, la poesia paradossale e apocalittica di Giorgio Caproni, un poeta speciale che come pochi ha avuto il coraggio di scrivere sempre in disarmonia con la sua epoca. E tutti gli scrittori e i poeti irregolari che non hanno mai cercato il compromesso, ma hanno agito seguendo la loro coscienza.

Exit mobile version