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La scuola e la “questione meridionale” degli anni ’90 del Novecento secondo Sergio Mattarella e Giuseppe De Rita

di Paolo Saggese

In occasione della Conferenza Nazionale sulla scuola, indetta dall’allora ministro della Pubblica istruzione, on. Sergio Mattarella, e che si svolse a Roma dal 30 gennaio al 3 febbraio 1990, alcuni degli studiosi più importanti dell’epoca e alcuni dei protagonisti del mondo dell’istruzione si confrontarono sul destino della scuola italiana, visto il ritardo fatto registrare rispetto alle altre Nazioni europee, anche avvicinandosi la nascita dell’UE e le nuove sfide nella competizione planetaria che richiedeva un continuo miglioramento dei sistemi di ricerca, di istruzione e produttivi, per essere alla pari degli Stati Uniti, della Cina, del Giappone e delle altre economie emergenti.

Le tante Direttive europee emanate proprio a partire da quegli anni imponevano anche all’Italia una riflessione attenta, un’autovalutazione rigorosa, al di fuori della retorica e della propria autocelebrazione.

Uno degli interventi più lucidi, accanto alla “Relazione introduttiva” di Sergio Mattarella, che lanciava l’allarme sul ritardo della scuola italiana, fu il saggio di Giuseppe De Rita, allora Segretario Generale CENSIS – Presidente C.N.E.L., dal titolo significativo “Diritto allo studio e qualità dell’istruzione” (edito alle pp. 140-155 degli “Atti della Conferenza Nazionale sulla scuola”, Vol. 1, Salvatore Sciascia Editore, Palermo, 1992), che pone accanto al “diritto allo studio” un analogo diritto alla “qualità dell’istruzione”, in coerenza con la trasformazione della Pubblica amministrazione in “servente”, propria di quel torno d’anni.

L’attenzione di De Rita, concentrandosi anche sul diritto e sulla “qualità dell’istruzione”, sottolineava come il primo non possa essere scisso dalla seconda:

“[…] i concetti di diritto allo studio e qualità dell’istruzione sono fondamentali. Si tratta di due concetti che vanno strettamente collegati, quasi direi che sono sinonimi: il diritto allo studio è innanzitutto un diritto allo studio di qualità, altrimenti si riduce ad un semplice diritto formale, burocratico, che non trova riscontro nei processi reali dell’educazione”.

De Rita sottolinea subito che se da un lato culturalmente è assodato il principio di “dare di più a chi ha di meno” e che la scuola ha un problema reale, “i ragazzi che perde” (don Milani), è anche vero che questa emergenza è lontana dall’essere risolta.

Ecco cosa scrive:

“I circa 75.000 ragazzi che non terminano la scuola dell’obbligo nel nostro Paese ed escono dal sistema educativo ‘formale’ in stato di grave minorità sociale e culturale; i tassi di bocciatura e di ripetenza che spesso si addensano proprio là dove ci sarebbe bisogno di un più mirato intervento formativo, ovvero nelle aree più depresse del Paese, l’intensificarsi di fenomeni selettivi nella scuola secondaria superiore per quanto riguarda le ripetenze e gli abbandoni nel primo anno di ciclo (12% nel 1988-89 per le ripetenze; 17.7% nel 1986-87 per gli abbandoni), conseguenza della ancor precaria fisionomia di questo settore, ma anche di un funzionamento non buono dei segmenti precedenti, sono il segno più evidente di un sistema che non riesce ancora ad assolvere il suo ruolo di compensazione delle disuguaglianze e che, forse troppo spesso, si limita a tradurre in svantaggio scolastico l’originario svantaggio socio-culturale”.

Dunque, De Rita sottolinea una sostanziale incapacità di compensare le diseguaglianze e un sistema che “si limita a tradurre in svantaggio scolastico l’originario svantaggio socio-culturale”, soprattutto “nelle aree più depresse del Paese”, dunque nel Sud.

L’analisi, di stampo meridionalista, è acuta anche quando De Rita aggiunge:

“Va comunque detto, per correttezza, che oggi la condizione di svantaggio è altrettanto diffusa come ieri, ma forse essa sta cambiando volto: spesso la precarietà di ieri era caratterizzata dalla povertà di mezzi materiali, mentre oggi in non poche situazioni si è tramutata in povertà immateriale, in una reale povertà di valori e di modelli. In maniera un po’ schematica si potrebbe dire che lo svantaggio, oggi, si è connotato di una variabile ‘esistenziale’ consistente nella insufficienza di prospettive, nella ricerca di una realizzazione di sé fatta spesso di inautenticità o di immagini finte, nella difficoltà e nella fragilità di un’integrazione sociale più apparente che reale, nella ridotta partecipazione”.

Possiamo, insomma, dire che alla “povertà economica”, che produceva “povertà educativa” nel primo secolo dell’Unità nazionale, si è aggiunta una povertà di valori e di modelli, che, a volte anche insieme a quella “economica”, causano una sconfitta esistenziale, che si traduce anche in “povertà educativa”.

Dunque, alla povertà economica, propria delle classi socialmente più svantaggiate, si aggiunge, con la società consumistica, una povertà “immateriale”, quella della privazione di valori e di principi, che ha carattere interclassista.

Analizzando in dettaglio il contrasto alla dispersione scolastica, De Rita, con oggettività di analisi, osserva che questo fenomeno non è sempre adeguatamente fronteggiato a causa di edifici scolastici fatiscenti, doppi turni, a causa di docenti non adeguatamente preparati ad affrontare il problema, di dotazioni didattiche insufficienti, causa tra l’altro del non meno grave analfabetismo di ritorno (p. 143).

D’altra parte, a De Rita è chiaro che gli interventi sulle “aree a rischio” o sulle “aree prioritarie” non potrebbe essere efficace se indirizzata ad una classe o a singoli alunni, ma solo se si interviene su tutta l’area in modo sinergico, su tutto l’ambito territoriale, coinvolgendo l’insieme delle relazioni, delle strutture, delle condizioni ambientali in cui gli utenti e le famiglie vivono.

Affinché l’azione sia efficace occorre anche individuare con correttezza le “aree prioritarie”, sulla base di sei categorie ben definite che sono le seguenti:

“- indicatori socio-economici: il reddito medio per abitante, il tasso di inoccupazione/disoccupazione, l’incidenza delle professioni dequalificate, ecc.;

– indicatori di disaggregazione sociale: l’indice di devianza minorile, l’incidenza di malattie sociali, ecc.;

– indicatori di livello culturale: la percentuale di popolazione in possesso di un titolo di studio, la diffusione di strumenti culturali (biblioteche, centri culturali, diffusione giornali …) ecc.;

– indicatori attinenti al livello socio-economico e socio-culturale delle famiglie: posizione professionale, titolo di studio, la dimensione media delle famiglie, condizioni abitative, ecc.;

– indicatori attinenti alla situazione scolastica: il fenomeno della dispersione scolastica (ripetenze, abbandoni, ritardi, evasione dall’obbligo, frequenza irregolare …), edilizia scolastica, doppi/tripli turni, dotazioni didattiche;

– indicatori di performance scolastica: i livelli di profitto nelle diverse materie”.

Questi indici di “rischio educativo” e di “disagio scolastico” trovano spesso una precisa collocazione in aree periferiche urbane, in paesi e frazioni isolate, in comunità montane di emarginazione rurale, per le quali, a partire dall’anno scolastico 1988/1989, il Ministero ha attivato alcune azioni specifiche. Ma, osserva ancora con acume De Rita, sino a quando “si forniscono risposte uguali a bisogni diversi il risultato inevitabile è di far crescere le diseguaglianze”.

E ancora oggi si fatica a comprendere quanto sia centrale questa acquisizione di principio.

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