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L’assedio di Gaeta, uno sguardo inedito su una pagina cruciale della storia italiana

“Cosa ci porteremo tutti di questa città martoriata? E’ quello che chiede alla regina Maria Sofia Silvie Frassinet, la giornalista marsigliese, inviata speciale de la Nouvelle Parisienne all’Assedio di Gaeta, protagonista del romanzo di Aldo Vella “Gaeta ultimo atto”, la Valle del tempo edizioni, in cui l’autore sceglie un punto di vista inedito per raccontare la battaglia che segnò la fine del Regno dei Borbone e insieme si interroga sul tortuoso percorso che condusse all’Unificazione.  A sorprendere è la risposta della regina “Il suo senso del mitico, questo ci porteremo: qualcosa che  è dei luoghi quando essi diventano teatro di grandi eventi, una sorta di genius loci, qualcosa che viene dalla terra, esala dal selciato delle strade e che conserva la storia e le storie che vi sono contenute, anche se la città dovesse essere rasa al suolo. Questa città risponde all’offesa nemica non solo con i suoi cannoni ma anche con sé stessa”. La regina sa che non c’è ormai nessun’altra scelta che la resa, lamenta di essere stata ormai abbandonata dalle altre nazioni europee ma è decisa a portare avanti la battaglia per i propri diritti attraverso una guerra di resistenza, nella quale è pronta a reclutare anche Silvie, giornalista ambiziosa e coraggiosa nella sua ricerca della verità, catapultata improvvisamente dalla cronaca rosa, da lei trasformata nella denuncia dei vizi di funzionari governativi e membri del Parlamento al reportage di guerra, dopo la rinuncia degli inviati speciali più quotati. Un incarico che, come lei stessa ha compreso, ha quasi il sapore di una trappola con tanti colleghi che aspettano solo un suo passo falso.

Il ritratto che ci consegna Vella, che sceglie il punto di vista dei vinti, è quello di una battaglia condotta attraverso ogni mezzo, lecito ed illecito,  in cui diventa difficile comprendere chi sono i carnefici e chi le vittime. Gli stessi Borbone, che acquistano nel racconto una dimensione fortemente umana, rappresentanti non come vili tiranni ma come innamorati del loro Regno e della sua bellezza, ribadiscono più volte di non volersi arrendere proprio perché difensori della cultura napoletana, di autentico patrimonio da difendere e da tramandare alle generazioni. Poiché l’Unità, non ha dubbi la regina, pronta lei stessa ad imbracciare il fucile, non farebbe altro che distruggere le culture nazionali, una ricchezza che è evidente nella musica di Roberto De Simone, ospite speciale della corte napoletana, nella cucina napoletana, nella paranza, nel dialetto fatto di incisi e aneddoti,  di cui si fa custode Renato De Marco “quel bene, spiega la regina, che non può essere trafugato come i depositi del Banco di Napoli. E’ un bene senza peso e senza volume che possiamo tranquillamente portarci appresso e al contempo lasciare sul terreno della nostra patria a covare”.
E’ chiaro fin dall’inizio che la narrazione è accompagnata da uno sguardo fortemente ironico, tanto che ogni ritratto, a partire da quello della protagonista, appare portato all’eccesso e fortemente ambiguo. Chi è la stessa Silvie? Viene da chiedersi, è la giornalista che riesce a tenere testa alla regina e al generale Cialdini, disposta a tutto per portare a compimento il suo reportage, la donna pronta a sacrificare la propria carriera per amore del tenente De Vito, incontrato proprio durante l’assedio, l’idealista che vuole raccontare i fatti per come sono o ancora la mercenaria pronta anche a cambiare padrone e accettare l’offerta di guidare l’ufficio stampa della regina, pur di non rinunciare al proprio lavoro? O ancora la donna leale al suo collega e amico Garnier, disposta a finire il manoscritto salvato dall’amico? La stessa Silvie confesserà  a pochi giorni dall’arrivo a Gaeta, che  “ormai i miei occhi guardano questa città in altro modo, attraverso la lente deformante del sentimento. E si sa, il giornalista che si affida alle emozioni non è più leale col lettore”. E’ lo stesso autore a illustrarci la sua idea della professione  “La Frassinet cercava proprio la cruda immediatezza, la carne sanguinante, le facce dilaniate dalla paura o allucinate dalla promessa di gloria co che avessero in sé entrambe le cose”. Parole che si contrappongono a quelle di Charles Garnier, altro giornalista francese giunto a Gaeta per raccontare l’assedio e deciso a scrivere un libro. Garnier rappresenta un diverso modo di vivere la professione con la stessa curiosità e amore del mestiere ma con maggiore autocontrollo e prudenza, lasciando spesso alla collega la parte più difficile. Lui che è apparso sempre razionale ed equilibrato, distaccato dall’oggetto del racconto, ribatte a Silvie “E se avessimo sbagliato tutto? E se fosse proprio l’emozione quella molla in più, che noi abbiamo sempre rifiutato a fare la differenza tra un cronista e un giornalista? Forse è proprio quello che abbiamo dentro a dare al lettore la scossa che lo fa riflettere”. Come a ricordarci che toccando con mano la sofferenza di un popolo, “l’odore di morte che si respirava tra quelle mura” è possibile andare al di là di ciò che appare, della propaganda, di una narrazione di comodo o attenta solo alla superficie o porsi almeno nuove domande. Saranno proprio le esperienze vissute da reporter di quell’assedio a cambiare i due protagonisti “Entrava in Silvie il rovello della guerra di aggressione o al minimo di annessione, maldestramente coperta da formali referendum popolari : ma che ne sapevano i Savoia di popolo italiano, loro che parlavano francese e anche male?”. La bella giornalista comincia a mettere in discussione le sue certezze, persino la stessa possibilità di raccontare la fine della città “Una straordinaria strana energia pervadeva le persone e le teneva insieme, quanto più si perdeva la forma urbis sotto il cumulo di rovine da cui emergevano, come membra di giganti feriti, cupole, campanili pezzi di portali. Ma più scompariva la città fisica, più emergeva quella immateriale: la memoria, questa misteriosa densa ed invisibile sostanza che tiene insieme le pietre della città distrutte, che tiene il catalogo delle colonne, delle chiavi di volta dei monumenti, che risucchia gli abitanti nei loro luoghi risorti”. Forse le parole non possono raccontare tutto questo, ripete Silvie che scoprirà, dopo la partenza di Charles, che nessuno può bastare a sé stesso.

Lo stesso Charles sentirà di essere cambiato, per la prima volta si era lasciato coinvolgere dall’oggetto del suo lavoro, lui che “Cercava la distanza per vedere il maggior numero di cose con il minor coinvolgimento personale”, ragionando sempre in termini di grandi sistemi, lui che per primo considerava i Savoia strumento per realizzare quella patria italiana a lungo negata “Era come se le vicende di Gaeta le avesse metabolizzate dopo un tragico pasto e ne fosse stato intossicato”. Anche lui sarà conquistato dalla regina Sofia, fino a considerarla una sorta di nume tutelare della sua gente.

Costante la contrapposizione tra vita e morte che caratterizza il racconto, così è nell’amore che nasce con Marco De Vito, come se la consapevolezza che non c’è tempo per nulla spingesse i personaggi a vivere con intensità ogni momento. “La cosa inquietante era che i tempi della vita erano il diretto portato dell’accelerazione di quelli della morte dovuti alla condizione di assedio e questo imponeva all’amore, massima espressione della via, di fare il tentativo di scavalcarla nella corsa, a costo di regalare momenti forse effimeri e fugaci, ma pur sempre di amore”. Tante le scene esilaranti che si incontrano nella narrazione, così mentre è in corso un assedio e i Borbone e gli uomini dell’esercito sanno che la fine è vicina non è strano assistere a una conversazione a tavola in cui si parli anche di dialetto e di cucina, a conferma della capacità di Vella di mescolare toni giocosi e gravi, la riflessione e la satira. Quasi a restituire la vita di una città che combatte sotto i colpi dei cannoni mentre una parte degli abitanti ancora continua a vivere una parvenza di vita quotidiana.

Ad emergere con forza è l’orrore della guerra, Silvie scoprirà che malgrado la tregua non era stato possibile estrarre tutti i cadaveri dai luoghi in cui erano caduti, seppelliti sotto le rovine, che lei stessa aveva calpestato, mentre sfilano i tanti faccendieri che cercano di speculare sulla guerra come Kuber, l’avventuriero pronto a spacciarsi per imprenditore edile, prima al servizio dei Borbone poi dei Savoia, incaricato di presiedere alla ricostruzione della città di Gaeta per cancellare ogni traccia della tragedia, con il rischio di distruggere anche la sua storia, a partire dalla sua fortezza come le ricorda Silvie. O come il generale Riccardi, traditore dal destino tragico, anche lui pedina in un gioco di relazioni internazionali che non prevedono più nessun futuro per il Regno delle due Sicilie. “Questa è una città di feriti che piangono i morti e ci vorrà del tempo perché nasca un fiore” dirà De Vito a Silvie nell’atto di separarsi da lei. Del resto, la storia dell’Unità, ci ricorda Vella, l’hanno scritta i vincitori. Anche Silvie, interrogandosi sul futuro, ribadirà i propri dubbi sulla capacità dei piemontesi di portare a termine il compito dell’unificazione, a partire dal mistero di Napoli “Era certa che i conquistatori non sarebbero riusciti  a decifrare tutto il racconto che conteneva e ciò l’avrebbe salvata dalla cancellazione che il vincitore fa dei simboli dello sconfitto”

Il volume sarà presentato il 2 marzo, alle 17, al Circolo della stampa. A confrontarsi con l’autore la dirigente scolastica Mirella Napodano e la giornalista Floriana Guerriero. Introduce Bianca Della Valle, presidente Fidapa.

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