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Mezzogiorno? un po’di storia per il Governo

Quando si va da un medico, quelle volte che si è costretti a farlo, noi spereremmo mai, la prima cosa che chiede è un’accurata anamnesi. Una brutta parola, che però fa bene e vuol dire raccontare fedelmente i nostri trascorsi fisici e mentali, in base ai quali il medico può capire, venire a capo di una patologia o escluderla. Non ci capacitiamo del perché non si faccia ricorso all’anamnesi anche per approfondire, curare le problematiche più importanti; come, ad esempio, la “questione Mezzogiorno”, del quale si denunciano i mali ma spesso non si studiano meglio le vere e remote cause. Che, per entrare subito in argomento, riguardano due comparti essenziali, sempre evocati ma mai affrontati come si sarebbe dovuto, e cioè il mancato, osteggiato sviluppo dell’agricoltura e l’altrettanto spinoso nodo delle infrastrutture. La storia è sempre maestra. Al di là di tante cose sbagliate che i governi unitari fecero ai danni del Sud, due furono le peggiori e molto gravi, perché mirate a non volerlo migliorare: la penalizzazione dell’agricoltura e la mancata “infrastrutturazione”, nodi tuttora irrisolti a più di un secolo e mezzo dall’unità d’Italia. Senza cadere nelle solite accuse antinordiste, tutto cominciò nel 1877. Allora per proteggere i settori industriali, tessili e lanieri, in larghissima parte del Nord, dalla concorrenza dei paesi tecnologicamente avanzati, il governo adottò leggi protezionistiche in loro favore per tener lontano dal mercato i prodotti stranieri. Questo se fece l’interesse del Settentrione, produsse ritorsioni immediate nel campo dei prodotti agricoli, che colpirono soprattutto il Mezzogiorno, allora il maggiore esportatore. Dieci anni dopo, nel 1887, andò peggio: l’Italia ruppe unilateralmente il Trattato commerciale con la Francia, la quale di rimando chiuse le frontiere, finendo, ancora una volta, per penalizzare il Sud e il comparto, l’unico, più produttivo. Inutile parlare del fascismo, votato a una suicida scelta autarchica, di per sé antimeridionalista. Finita la guerra non certo più fortunata risultò la riforma agraria della Dc con la “quotizzazione” delle terre, distribuite ai contadini e poi nuovamente finite nelle mani dei latifondisti. Ad aggravare un contesto già critico pesarono poi molto emigrazione, spopolamento e un conseguente, grande paradosso: mentre la Cassa per il Mezzogiorno cominciava a dotare i territori di servizi e essenziali infrastrutture, il biblico esodo del Sud già cercava il futuro altrove, al Nord e nelle Americhe. Ma il colpo di grazia, verso la metà degli anni Ottanta, lo diede Prodi, quando da presidente dell’Iri, svendette la Sme, il colosso dell’Agroalimentare, fiore all’occhiello del Meridione, con una operazione sciagurata a “spezzatino” a vantaggio del centro- Nord. Fin qui l’agricoltura. Sempre negli anni della unificazione, non fu meno infausta la sorte della “infrastrutturazione”: i governi nordisti, per un meditato disegno strategico, temendo una “riorganizzazione” in funzione antiunitaria dell’ex regno di Napoli- ma questo fu un alibi- tagliarono definitivamente il Sud da ogni collegamento. Il piano di strade, ferrovie privilegiò le regioni settentrionali e lasciò al Sud, le briciole, le linee ferroviarie a “scartamento ridotto”, destinate a finire alle ortiche o in mano a notabilati. Fu in quel clima che si ebbe come contentino la Rocchetta Sant’Antonio. Qualche giorno fa, dopo oltre un secolo e mezzo, sentire però dire dal neo ministro all’Agricoltura, il padano Gian Marco Centinaio , che “il Sud deve ripartire esclusivamente dall’agricoltura perché senza il Sud l’Italia non parte” ci è parsa una sorta di nemesi storica, un atto di giustizia in direzione di un ribaltamento di remote e oggettive discriminazioni, le più penalizzanti. Tutto però da verificare. Se sul fronte agricoltura, pare, si annunci bel tempo, la cautela è d’obbligo, su quello delle infrastrutture, al cui ministero è andato a Danilo Toninelli, un grillino della prima ora, ancora intriso di una preoccupante dose di fondamentalismo ambientale, che non promette certo bene. Per capirci No-Tav e dintorni. Vogliamo sperare, però, che il M5S, come si è turato il naso nel fare alleanze considerate, nei mesi scorsi, ibride e inconfessabili, faccia anche qualche utile passo indietro nella sua alterna e duttile demagogia di fronte alle oggettive necessità del Sud. A cominciare da subito anche con la vicenda dell’Ilva di Taranto e un conseguente, saggio ripensamento circa la sua chiusura e riconversione, che metterebbero a rischio circa ventimila lavoratori, direttamente o indirettamente, e un punto di prodotto interno lordo. Il nuovo governo, visto che ne ha voglia ed è anche giusto che l’abbia, provi piuttosto a fare, quello che molti governi fin qui non hanno voluto fare: a incalzare le regioni del Sud a riscoprire le programmazioni per spendere al meglio i fondi Europei in via di estinzione e a sapersi meglio rapportare con le iniziative del governo centrale. Sarebbe un segnale, questo sì, rivoluzionario.

di Aldo De Francesco edito dal Quotidiano del Sud

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