Corriere dell'Irpinia

Premio Strega, vince Di Pietrantonio. In giuria gli studenti del Mancini

E’ stata la scrittrice Donatella Di Pietrantonio, che non ha mai lasciato la professione di dentista dei bambini, ad aggiudicarsi il premio Strega. Già vincitrice dello Strega Giovani 2024, ha superato tutti con 189 voti per ‘L’età fragile’ (Einaudi). Attraverso il rapporto tra una madre, Lucia, e la figlia ventiduenne Amanda, l’autrice mette in discussione gli  stereotipi sugli anni e sulla sicurezza dei piccoli luoghi di provincia, con la pandemia sullo sfondo.  Un romanzo che affronta anche la violenza di genere – rievocando un fatto di cronaca nera accaduto nel 1997 nella sua terra, l’Abruzzo.

“Prometto che userò la mia voce scritta e orale in difesa di diritti per cui la mia generazione di donne ha molto lottato e che oggi non sono più scontati” ha ribadito Di Pietrantonio. Nel suo libro ci ricorda come “Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c’è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent’anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia”. 

Di Pietrantonio era già stata candidata al Premio Strega nel 2014, con Bella mia (Elliot), e nel 2021, quando era arrivata nei finalisti della cinquina con Borgo Sud (Einaudi). Anche il suo romanzo di esordio, Mia madre è un fiume (Elliot, 2011), era stato proposto al Premio Strega ma non era stato scelto tra i dodici candidati definitivi, la cosiddetta “dozzina”.

Dario Voltolini mantiene il secondo posto, in cui si era piazzato a sorpresa nella prima votazione a Benevento, con 143 voti per “Invernale” (La nave di Teseo), potente racconto degli ultimi anni di vita del padre. E rimane al terzo posto con un distacco di 5 voti Chiara Valerio a 138 preferenze,  per “Chi dice e chi tace” (Sellerio), che ci porta a Scauri, suo paese d’origine, e ci fa entrare nei sentimenti e pregiudizi e nell’assioma della inconoscibilità dell’altro attraverso la storia di Lea.

Al quarto posto Raffaella Romagnolo con “Aggiustare l’universo” (Mondadori), 83 voti. Al quinto Paolo Di Paolo con “Romanzo senza umani” (Feltrinelli), 66 voti. Al sesto Tommaso Giartosio con “Autobiogrammatica” (minimum fax), 25 voti.

In giuria al premio Strega Giovani, con il coordinamento della docente Mara Lo Russo, anche gli studenti del Mancini che avevano molto apprezzato i due libri vincitori “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio e “Invernale” di Dario Voltolini. Due libri a cui gli studenti hanno dedicato preziose recensioni.

“Sono passati quasi trent’anni. – scrive Vincenzo Casalino, studente sedicenne del liceo Mancini – Tutto è evaporato, trasformato, scomposto. Anche la natura dimentica. Ricresce su tragedie e disastri.” Il trascorrere del tempo, la trasformazione inevitabile a cui conduce. Donatella Di Pietrantonio ci regala un’opera intensa e struggente che esplora con sensibilità e profondità il tema della fragilità umana e i complessi rapporti tra le generazioni. La scrittura è carica di emozioni, i personaggi vividi e le situazioni descritte toccano corde intime del lettore, portandolo a riflettere sulla natura della nostra esistenza e sulle relazioni che ci legano. La fragilità è quella dell’anima e del corpo, una condizione che non risparmia nessuno e che si manifesta in vari modi nel corso della vita. Il rapporto tra le generazioni è un altro tema centrale del romanzo. Attraverso la storia di Amanda e del suo ritorno a casa, l’autrice indaga le dinamiche familiari e il peso dell’eredità emotiva e materiale. Amanda, con la sua presenza e le sue tracce sparse per casa, rappresenta un ritorno al passato e al contempo un confronto con il presente: “Il disordine che trovo al mattino mi ricorda che non sono più sola. Amanda è tornata, mi guardo intorno e inciampo nelle sue tracce”. Questo disordine fisico si riflette in un disordine emotivo, un turbine di sentimenti e memorie che riemergono con forza. La fragilità si manifesta nei momenti di crisi, dove i personaggi devono affrontare situazioni che mettono alla prova la loro resistenza e il loro coraggio. Una delle scene più potenti è quella in cui i protagonisti si trovano di fronte a un cadavere vittima di violenza sessuale, con un tono che è al contempo di rassegnazione e di determinazione: “Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire”. La consapevolezza della propria vulnerabilità rende i personaggi più umani e avvicina il lettore alla loro realtà. Infine, l’autrice descrive la forza che viene dalla comprensione e dall’accettazione delle proprie debolezze e di quelle altrui. La vicinanza tra i personaggi, il loro sostenersi a vicenda, rappresenta un faro di speranza: “Mi manca una confidenza, l’intimità delle piccole cose quotidiane. Sedere a tavola uno di fronte all’altro, trovarsi con lo sguardo. È questo l’amore che non ho più. È diventato nostalgia”. Tale nostalgia non è solo rimpianto, bensì un riconoscimento della bellezza di quei momenti semplici e autentici. “L’età fragile” invita a riflettere sulla nostra condizione umana, sulla caducità della vita e sul valore delle relazioni. Di Pietrantonio, con la sua scrittura delicata e potente, ci guida in un viaggio emotivo che tocca il cuore e la mente, rendendo questa lettura un’esperienza indimenticabile”

“Il tempo di Invernale è dilatato – scrive Caterina Iovino, anche lei sedicenne giurata del Mancini – Il tempo di “Invernale” è dilatato: una rete dalle maglie indefinite, che palpita per proprio impeto, autonoma e soverchiante. Le creature che avvinghia scalpitano, ma non conquistano spazio se non a discapito l’una dell’altra. La rete informe raggiunge tutto, nulla la allenta.
Dario Voltolini ne ipotizza l’intricata struttura e la riproduce in una narrazione fedele all’osso delle cose, essenziale e lirica, enigmatica.
Le parole si snodano a ridosso d’un solo dogma, in cui ogni elucubrazione confluisce: un’agghiacciante attesa impregna i gesti e ne demolisce il senso. Chi non sta al passo, soccombe in solitudine; un “tempus edax” che schernisce le prede prima di divorarle.
Gino è macellaio: campa immerso nella carne. Lavora solerte, meccanicamente, un gioco di tagli e di acume che non tollera emozione né esitazione. Dietro al bancone del mercato, è più vicino alle bestie che ai famelici clienti. Virus e batteri ripopolano le carcasse, ne alterano la natura. Esse pullulano di una vita che s’inerpica al confine con la morte, onde fronteggia l’uomo che ne infrange e mercifica la dimora. L’abituale frenesia, però, procura a Gino una ferita che determina la virata di una forza mai temuta: normalmente flebile, stavolta dirompe, stimolata dal contatto imprevisto. Attacca le viscere e non ha rispetto del campo di battaglia, che dissacra e devasta.
Agli albori, il morbo già lede le certezze della quotidianità. Il calore d’un’esistenza estranea alla noia si attenua nella freddezza di immobili acque. I sostegni si sgretolano, ci si inabissa. Procede rapido l’autunno e l’inverno aspetta il proprio turno.
Gino pare rilassato, riflessivo. Tuttavia la rilassatezza è fissità, estrema concentrazione, fatica, mentre la riflessione è constatazione del repentino svuotamento di significato subito dagli oggetti. La forza indoma deteriora il “velo” della consuetudine, che filtra la realtà. Dubbio aleggia sulla crescente spossatezza fisica. La comunicazione verbale è pressoché assente: il linguaggio “della praticità”, di cui dispone il protagonista, è incompatibile con le tetre impressioni, che plasmano i suoi atti, e vano sarebbe il tentativo di trasmetterle.
Il figlio Dario, invece, si accorge del tacito disorientamento del padre e ne descrive le fasi con scientificità; immortala nella propria lingua l’oscurità che la vittima non sa arginare. Alleggerisce, così, la croce del sarcoma che grava sulle spalle del genitore, sebbene non possa sostituirlo sul lavoro o affiancarlo negli spostamenti inderogabili. Il filo che li unisce, intreccio di devozione e appartenenza, spartisce il dolore. Si tende, non si spezza. L’interpretazione del male subito padre giace nel cuore del figlio, pure quando questi non gli dà nome.
In un simile viaggio straziante, il lettore è chiamato a sostare e meditare. È condotto in una zona priva di speranza o imprecazione. Qui soltanto perpetua, semplice rassegnazione, che non è stolido compianto, bensi innato studio.

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