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Quella capacità di riempire il vuoto, un viaggio chiamato Sponz: oggi è il tempo di ricostruire

di Giulia Di Cairano

A ruota libera, sdentata, barcolla, traballa sul dorso della folla, non il Gioia, ma il Folle in gioia, e con le tre dita la via pare indicare perché la sua femminile forza, contemporaneamente motrice e resistente, unico caso accertato al mondo, la Follia, è tripartita, una in tre: follia come festa, follia come violenza e follia come disagio mentale. In questo isocolo, il filo che si srotola legando è la distinzione sfumante tra dannazione e salvezza, che contraddistingue l’umanità. D’altronde, sulla terra non è rimasta che follia, canta Vinicio Capossela nella sua e nostra Ariosto governatore. Capossela, come Ariosto al lettore di ogni epoca, non offre all’ascoltatore un modello da seguire. Il virtuoso e senza macchia Orlando del ciclo carolingio è un irraggiungibile esempio, invece il furioso Orlando ariostesco è un uomo, con le sue fragilità. La letteratura e la musica preparano gli esseri umani al cambiamento, che è sempre perdita sacrificante e non sacrificata. In un’epoca di cavalieri inesistenti, la razionalità ha lo stesso valore della follia. Di questo si è discusso allo Sponz 2023, di questo si è animata la festa di cui lo scorso anno è ricorso il decennale. Ciò che succede nelle ossa irpine ogni agosto, dal 2013, a dimostrazione che se mancano della loro carne esse possono ingrassarsi, umidificarsi e farsi ballare da una nuova, è lo spettro della luce visibile, Atena glaucopide. Abbiamo visto lo Sponz accamparsi agli sposalizi, balzare su un treno, ragliare alla luna, sparare alzando la polvere, tornare indietro, inselvaggirsi, finire addirittura sottoterra pestifero, farsi acqua, scheletrizzarsi, coltivare e curare, per poi riconoscersi folle, per ciò che è stato e sarà. Se ci sarà ancora uno Sponz, fisico – quello spirituale è eterno. Gli sponzati Vinicii, genitivo singolare di Vinicius, si sottopongono ad una laica e forse profana abluzione, mentre vino e birra sono ematici. Eppure, le loro anime non sono pronte per entrare in Purgatorio, nessun rametto di giunco le cinge: sono solo più consapevoli della loro finitudine. La culla è la tomba. La tomba è la culla.

Domenica 20 agosto 2023, di sera, all’Episcopio di Sant’Andrea di Conza, Capossela, accompagnato dal rintocco delle campane che definisce battito, in un tempo in cui mi sento sospesa, inaugura l’undicesima edizione dello Sponz, con Ermanno Cavazzoni e Marco Rovelli. Il primo è un omino con un marcato accento emiliano, che sembra appena uscito da un teatro, ed effettivamente lo è, in quanto sceneggiatore e scrittore. Con La galassia dei mattoidi, denuncia forme di follia che vanno dai reality show agli scrittori social improvvisati, passando per i negazionisti di tutto, in un monologo satirico esilarante. All’amaro del riso si sostituisce il profondo intervento di Marco Rovelli, ispirato al suo ultimo libro Soffro dunque siamo. Il tema è la follia come disagio psichico e decostruisce il mito del successo sfrenato nella società degli individui, quella del Narciso al posto dell’altrettanto imperfetta società dell’Edipo, in cui siamo tutti tristi, arrabbiati e soli. Dietro ogni scemo c’è un villaggio, globale. Quelle di Rovelli sono parole che colpiscono come ascia ma consolano come una carezza perché pronunciate con dolcezza rivoluzionaria, che mi ricordano Michela Murgia. Orfani di lei, orfani dello Sponz. Da ragazza di diciassette anni, che vive in un mondo in costante confronto con le malattie mentali e i problemi alimentari e che sente la pressione del perfetto, ascoltarlo due volte è terapeutico: «il sé non è un sostantivo singolare ma un verbo plurale». C’è chi i suicidi degli studenti e le memorie dei malati di mente sa interpretarli e raccontarli perché è il sistema ad aver fallito con loro. Il lunedì si parla di psicoterapia e si fa art-terapia ad Andretta, con Una, Nessuna, Centomila, condotto da Teresa Cella, a cui seguono numerosi contributi, la maggior parte di donne, per dialogare sulla violenza di genere, di tipo personale, istituzionale e strutturale, omaggiando le immense Alda Merini e Sibilla Aleramo. Non è avere la testa sulle spalle e i pantaloni sulle gambe ciò di cui l’umanità necessita per eliminare la violenza e la disuguaglianza di fronte alla diversità, né la castrazione chimica, che è davvero folle.  Piuttosto sono incontri come questi ad essere necessari, cioè la formazione culturale. I miei studi liceali sull’habeas corpus e Dei delitti e delle pene mi risuonano nelle orecchie: da studentessa del liceo scientifico mi è impossibile non essere pungolata dalla sezione cultura dello Sponz. Il martedì ad Aquilonia si ricorda Rocco Scotellaro, un filo d’erba, in quanto il meridionalismo serve ancora, mercoledì pomeriggio a Calitri si presenta Come li pacci, un racconto a più voci di dieci anni di Sponz Fest, edito per comunicare che siamo tutti emulsionati, oltre che emozionali ed emozionati. Il programma dello Sponz è un paradigma concettuale e sociale complesso e non è possibile digerire tutta la spesa gratuita della felicità, di cui pure rimane in rete un biglietto accartocciato. Tuttavia, tra i tantissimi appuntamenti degni di citazione, quello con Mariangela Capossela e le sue CI.CORRISPONDENZE IMMAGINARIE fa giungere voci sgocciolate dalle stelle nelle risposte date oggi alle epistole mai spedite degli internati nel manicomio di Volterra. Il remoto si impone nel presente e lo interroga, senza alcuno scetticismo. Snervati e sfibrati, venerdì e sabato si conclude Come li pacci per ritornare alla follia quotidiana, che però, visto che si fa l’alba, è raggiungibile solo la domenica sera. La penultima sera, alcuni pazzi, tra cui io, scalano il Montecanto per assistere alla presentazione di Oro puro di Fabio Genovesi, in ritiro, come Gesù sul Monte degli Ulivi, dopo l’Ultima Cena, noi prima dell’Ultima Sera. Ma veramente è l’ultima? Ai piedi instivalati della trebbiatrice volante di Dum Dum, tra il sole e la luna, equidistanti dal paese dei coppoloni, dei mosconi e dei siensi, dispiega le ali un corale folle volo, che attraversa il mondo classico, la letteratura cavalleresca e il western americano. Si riflette attorno alle grandi questioni della modernità, cominciando con l’evento che ne viene considerato dalla maggioranza degli storici l’inizio: la scoperta dell’America. L’incontro con umani sani, belli e senza denaro, in terre colorate e fruttuose, avrebbe potuto cambiare la direzione dell’Occidente, invece si è scelto di sterminare, deturpare e sottomettere, mettendo in dubbio l’esistenza di un’anima negli indigeni. Dal caso alla scelta si avverte la distanza che separa Nuno, un nessuno sconosciuto diventato fondamentale nella scoperta, e i grandi della storia. Nuno, come Orlando, è in noi, come Ulisse, Achab e Colombo. Mi avverto, finalmente, profondamente appagata di riflessioni ed emozioni. È il dialogo di cui ho, penso abbiamo, bisogno. Lo vedo nelle pupille dilatate dei forestieri, dei tantissimi giovani universitari che tornano nella loro Irpinia in agosto per lo Sponz e degli adolescenti che vi restano e riscoprono l’humus che li ha cresciuti.

Nelle ultime due sere, si alterna l’accensione di uno dei tre palchi, di cui due casse armoniche, attorno alle quali si balla come falene. Vinicio si leva il sonno di dosso e adesso per sempre, per sempre è con noi e con raggi sulla schiena irradia gio-gio-ia così esplode la notte in un battimano. Sono nomi parlanti quelli di venerdì: l’Orchestrina di Molto agevole, i Violini di Santa Vittoria, Tonuccio Corona, Trio Ristoccia e Nino Frassica, personaggio uguale persona, e altre meraviglie. Innesti e disarmonie, intersezioni e parallelismi, vibrano, balenando come lampi e sgusciando come cibo friabile. Per i veterani, tra cui non ho il piacere di annoverarmi, l’ultima sera di Sponz è il Concertone. Quello dello scorso anno è una soffusione emorragica ancora in corso, a differenza della luce soffusa che è stato per me le edizioni precedenti. Complice l’uscita dalla pandemia e l’attrazione del numero dieci sui pitagorici telematici, nella serata di sabato, si può affermare, che ci sia l’amore tout court, in propagazione come i cerchi nell’acqua, che gira come giostra in tondo. Cito le apparizioni senza seguire Chronos ma andando dal primo all’ultimo, dal secondo al penultimo, come alcuni dei punti estremi in cui si ferma gradualmente un pendolo, fino a tornare a nanna, speriamo breve. Il texano Micah P. Hinson strugge e trascina in un buco nero, Capossela chiude in mattinata con le sue dionisiache opere, dopo aver presentato alcune delle sue urgentissime Tredici canzoni urgenti, la Fan Fath Al, con una fanfara di caccia ai cinghiali orwelliani, la grazia potente di Margherita Vicario e delle staffette in bicicletta, l’immancabile Nachecici rivisitata, il chirurgico e commovente Samuele Bersani, Vinicio in amore, il magico tanghero Daniel Melingo, la Banda della Posta meglio della Banda San Soucì ed il poliglotta circense Paolo Rossi, uscito dalla Tv come da un ristorante. La musica ci nutre, non possiamo farne a meno: è la metafisica su cui i filosofi non discutono.

Le opere eterogenee non sono efficaci modelli di riferimento – ne è un esempio la Divina Commedia, disprezzata per secoli a causa del suo plurilinguismo – e tra queste credo rientri anche lo Sponz. Ha più voci, confonde e turba, ma lo preferisco ai monologhi di altri festival. Non so riordinarlo in me e forse non voglio farlo, all’occorrenza ne prenderò dei frammenti. Lo Sponz è il meridionalismo, è la diversità, è l’umana sorte. C’è tutto. Per me, è il mio romanzo di formazione. Scrive Capossela in un passo di Eclissica: “C’erano fichi maturi, con l’insidia della vespa dentro, e tavole imbandite e mense. Si ballavano quatriglie con l’accetta. Si cacciavano volpi. Si tornava in agosto. […] Itaca ti ha dato il viaggio. Ma il viaggio lo hai fatto da solo”. E lo Sponz ci ha dato il viaggio. Ma il viaggio lo abbiamo fatto insieme. Irpini, emiliani, italiani, americani. In una Babele moderna, il modo di comunicare lo abbiamo trovato. Eppure, un comunicato social ha scosso i tanti giovani trepidanti d’attesa per lo Sponz: non l’annuncio delle date, di un tema, di nuovi ospiti, bensì la presa di coscienza che lo Sponz 2024 non ci sarà. Il dolore è collettivo. Vinicio Capossela ha dimostrato che il vuoto è una risorsa, se si sa come riempirlo, e lui ci ha provato. I festival possono essere un’occasione per rivivere lo spazio pubblico, soprattutto in provincia, dove portare, o riportare alla luce, la cultura, è un atto necessario. Forse per conoscersi serve frammentarsi, ma il nostro territorio è già fin troppo frammentato da divisive differenziazioni. Le differenze, invece, le abbiamo viste, scandagliate e capite. È giunta l’ora di riunirsi e ricostruirsi.

Faciti rota, tra un anno di nuovo qui!                                                                                                     

 

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