Si potrebbe definire anomala la convivenza forzata tra i leader del governo giallo-verde e il Capo dello Stato. Due visioni politiche opposte costrette a dialogare e a tessere il filo delle mosse future. Sergio Mattarella il 31 gennaio del 2015 è stato eletto al quarto scrutinio Presidente della Repubblica con 665 voti, poco meno dei due terzi dell’assemblea elettiva. Ha giurato il successivo 3 febbraio. In pochissimo tempo il Parlamento che lo ha eletto ha cambiato pelle e le elezioni politiche del 4 marzo del 2018 hanno portato ad una vera e propria “rivoluzione” che si può paragonare forse solo ai tempi del dopo Tangentopoli. Allora i vecchi partiti furono spazzati via, oggi Salvini e Di Maio stanno imponendo un’agenda politica che non ha precedenti. Forze assolutamente nuove alla prova del governo come i Cinque Stelle insieme alla Lega che nulla ha in comune con quella di Bossi e Maroni che pure ha avuto responsabilità di rilievo negli esecutivi guidati da Berlusconi. Salvini però è altro. Ha imposto una sua politica con al centro gli interessi degli italiani, le paure di chi con la crisi economica si è impoverito e non accetta più l’arrivo dei migranti. Abbiamo assistito dall’inizio della legislatura alla guerra dialettica soprattutto con Parigi e con le altre nazioni europee e poi lo slogan ripetuto all’infinito dei “porti chiusi”. Usa i social per ribadire che gli sbarchi sono crollati e le città sono più sicure. Attacca i magistrati per il blocco della Nave Diciotti ma afferma che il processo non va fatto e il Senato deve negare l’autorizzazione chiesta dai giudici. Tutto nasce dalla richiesta del Tribunale dei ministri di Catania di processare il ministro dell’Interno Matteo Salvini per sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale per aver impedito ad agosto lo sbarco di 177 migranti per cinque giorni. Salvini, come dice Saviano, confonde però la legalità con il consenso: se mi hanno votato, quello che ho promesso in campagna elettorale posso farlo, anche se violo le leggi. Un’idea distorta della democrazia. Questa idea di uno scontro perenne con l’altro, l’idea che la politica non è mediazione ma rapporti di forza è un modo completamente diverso rispetto a quello di Mattarella che ha nel proprio Pantheon personale i leader cattolici come Sturzo, De Gasperi e Moro. Il Capo dello Stato fa della normalità istituzionale il tratto distintivo della sua Presidenza. Da Moro, Mattarella non ha ereditato solo la timidezza e la riservatezza ma soprattutto l’idea della fragilità della democrazia italiana che già lo statista democristiano vedeva molti anni prima del crollo dei partiti. Per Mattarella come per i suoi maestri la politica è mediazione ed è l’opposto della politica personalizzata, urlata, ammiccante. Mattarella è figlio del cattolicesimo democratico. Una cultura fondata un secolo fa da un altro siciliano: Don Luigi Sturzo. Una cultura sopravvissuta e ancora attuale ed oggi incarnata proprio dal Presidente della Repubblica. Il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha ricordato che “quando Mattarella fu eletto c’erano consensi sulla fiducia, adesso significano che ha corrisposto alle aspettative. Esempi: il lungo applauso che l’ ha accolto alla Scala di Milano il 7 dicembre e l’ approvazione ottenuta dal suo messaggio di Capodanno sui buoni sentimenti. Perfino il guru dei 5 Stelle Beppe Grillo, che aveva brutalmente recriminato sui troppi poteri di chi sta al Quirinale, dimenticando che sono poteri di garanzia, da un po’ tace. Come sarà il suo futuro da presidente? Il suo soft power rientrerà nella silenziosa e poco attiva ortodossia? Difficile, perché lo aspettano due transizioni costituzionali complicate, che gli alleati di governo inseguono e sulle quali dovrà vigilare: la democrazia diretta e il federalismo differenziato”.
di Andrea Covotta