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A mio avviso questo tornare a riscoprire il problema delle zone interne dipende da alcune motivazioni che, sia pure marginalmente hanno a che fare con l’epidemia del coronavirus che è stata determinante nella riscoperta dell’ambiente sano e ha dato grande valore alle innovazioni tecnologiche, sino ad ora poco considerate. Si tratta di cogliere le opportunità che i fondi stanziati possono rendere concrete. Penso, ad esempio, alla sanità e alle risorse europee destinate a questo settore con la realizzazione di una rete che sia in grado di assicurare una puntuale sanità territoriale e a centri di alta specializzazione, o al problema dell’accoglienza che deve fare riferimento a strutture adeguate e a servizi per comunità mediovaste. E ancora. Favorire il ritorno dei giovani nell’agricoltura, fenomeno che è stato attivato in molte parti del Paese con risultati significativi. Di più. Rendere economicamente produttiva la filiera del vino che risente di piccoli egoismi che non portano da nessuna parte. Per fare questo, e tanto altro ancora, occorre però un disegno strategico di rilievo epocale. Ben sapendo che le opportunità da cogliere hanno come obiettivo una valutazione sul caso emigrazione il cui dramma deve essere capovolto: non andare via per disperazione, ma ritornare alla radice, con le competenze acquisite, in un ambiente ancora sano, inteso come attrattore di risorse per creare lavoro. Il cambio di mentalità, la svolta culturale, il ruolo della classe dirigente non opportunista sono le armi con cui la battaglia può essere affrontata spero con esiti positivi. Il pensiero, però, che si riparli delle zone interne solo per motivi elettorali e conseguente possibilità di estendere il potere clientelare mi rattrista e diventa in me causa di angoscia.
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Di sviluppo delle zone interne si discute sin dal dopoguerra. A metà degli anni Sessanta le maggiori forze politiche in Irpinia dedicarono grande attenzione alla questione. Allora nacque il Progetto speciale 21, così definito per la realizzazione di importanti infrastrutture. Esse avevano come obiettivo la rottura dell’isolamento. Ricordo uno dei primi convegni che si svolse negli anni Settanta ad Ariano Irpino in cui si teorizzò che senza creare una componente di reddito industriale sarebbe stato difficile uscire dall’isolamento. Presidente della giunta regionale era allora Nicola Mancino, a spingere il progetto fu Salverino De Vito. L’Irpinia tenne testa all’area metropolitana ponendo la questione della penalizzazione delle aree interne rispetto alle zone costiere. Poi i compromessi, le mediazioni al ribasso, hanno vanificato quella significativa stagione, e oggi sulle aree interne rimane l’effetto notte. Il Progetto 21 poi si trasformò in Progetto per le aree interne che faceva leva sulla direttrice di sviluppo Caianiello- Grottaminarda-Lioni- Calitri. Anche qui quasi mezzo secolo dopo quel progetto si è fermato ai ponti sospesi tra Grottaminarda e Lioni, mentre in molti nel tempo si sono cuciti al petto la medaglia della soluzione del problema. Che, invece, resta irrisolto vergognosamente. Avrei ancora tanto da raccontare e delusioni da consegnare. Guardo al futuro: le cose da fare sono tante e importanti per lo sviluppo delle aree interne. Anche gli ostacoli non mancano. Si può rimediare ponendo fine alla confusione attuale. Si può fare, si deve fare. I soggetti in campo abbandonino il provincialismo deleterio e si uniscano per un progetto strategico di respiro centro-meridionale. Altrimenti se muore l’Alta Irpinia e con essa le zone interne muore anche il futuro della nostra terra.
di Gianni Festa