Corriere dell'Irpinia

Sulla “necessità” della poesia, sentirsi parte di un’umanità pensante

di Milena Montanile

Fin dagli anni 70, nel celebre discorso che Montale pronunciò in occasione del conferimento del Nobel (1975), molti si chiedevano quale potesse essere, il destino, la sorte della poesia di fronte al dilagare del consumismo. Montale era profeticamente consapevole dei rischi della contemporaneità, eppure sosteneva che «non è affatto credibile che il proliferare della cultura di massa, la diffusione incontrollata della comunicazione in ogni sua forma, non avesse prodotto, per il suo carattere effimero e fatiscente, e per necessario contraccolpo, una cultura che fosse anche argine e riflessione». Sappiamo che il linguaggio poetico, in quanto irriducibile alla logica del profitto, apparve allo stesso Pasolini una risorsa, un bene inconsumabile: Io produco una merce che è in realtà inconsumabile. […] Morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo, ma la poesia resterà inconsumata. Ebbene di fronte all’innumerevole quantità di parole scritte o dette, da cui siamo costantemente bombardati, è necessario costruire un argine. Alla base di questo argine sta, appunto, la poesia, che, in quanto arte, stimola alla riflessione, disegnando, tra i tanti universi possibili, nuovi orizzonti di senso.

Il discorso di Montale sul destino della poesia, tenuto nel 1975, in occasione del conferimento del Nobel, impone anche a noi, oggi, in un mondo completamente mutato, e in una società minata da nuovi mali e nuove emergenze, una riflessione, ma, direi, più che sul ‘destino’, sulla ‘necessità’ della poesia oggi.

È ben noto che il 21 marzo di ogni anno si celebra, fin dal 1999, la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dall’Unesco, nell’intento di celebrare una delle forme espressive più belle ed antiche utilizzate dall’uomo: il linguaggio universale che supera qualsiasi confine perché parla la lingua universale delle emozioni è diventato, così, patrimonio dell’UNESCO.

Oggi purtroppo è sotto gli occhi di tutti il proliferare di una forma nuova di disagio che l’emergenza pandemica ha portato in drammatica evidenza: l’isolamento forzato imposto dalla pandemia, lo sviluppo incontrollato, e non sempre benefico, delle nuove tecnologie, ha generato un nuovo ‘mal di vivere’ con conseguenze vistose sul piano dell’equilibrio psico-fisico: quel senso diffuso di solitudine, connessa all’ autoisolamento sociale, che conduce all’alienazione, e tra gli esiti più drammatici, alla violenza, a tutti quei mali di cui soffre la società di oggi, pervasa dal delirio dell’antropocentrismo, da un vuoto culturale generalizzato.

Il grido d’allarme contro la pericolosa deriva cui l’uomo stesso sembra condannarsi, è contenuto in un documento diffuso nel maggio scorso negli Stati Uniti da Vivek Murthy, medico statunitense di origine indiana, e principale portavoce  in materia di sanità pubblica del governo federale degli Stati Uniti, il quale ha avuto modo di osservare che l’intero Paese è colpito da una nuova e, forse più grave e pericolosa emergenza pandemica, quella “epidemia di solitudine e di isolamento sociale” di cui si diceva prima, e che ha portato metà degli americani adulti a  vivere in condizioni di estrema sofferenza psicofisica con evidenti ricadute sul piano della salute pubblica  (nell’ultima metà del secolo i nuclei familiari single sono raddoppiati, e la pandemia ha fatto il resto). Si sa bene che la solitudine è un sintomo del sistema che la produce,  legata proprio all’indebolimento del rapporto individuo-società: una condizione di obiettiva sofferenza, di vera e propria malattia, per la quale  il medico statunitense ha indicato, in un fitto documento di circa ottanta pagine, i possibili correttivi (Strategia nazionale per promuovere la connessione sociale). “La solitudine, ha scritto Murthy, è come la fame o la sete. Una sensazione che il corpo ci invia quando qualcosa di cui abbiamo bisogno per la sopravvivenza viene a mancare”.

Ora  credo che sia utile partire proprio da questo accorato appello, che è poi,  come si diceva, un vero e proprio grido d’allarme, per ritrovare nella poesia, e nel ‘piacere’ che essa procura, una possibile via di salvezza, nel tentativo di arginare quella “epidemia di solitudine” che rischia di sfociare in vere e proprie esplosioni antisociali.   L’umanità ha dunque bisogno, oggi più che mai, della poesia, del conforto della parola poetica, che oltre a stimolare il pensiero creativo, è capace di scavare nel profondo, di raccontare tormenti e smarrimenti, insegnandoci, come ci ha ricordato Dante, che è possibile smarrirci,  ma è altrettanto possibile andare avanti, procedere un passo dietro l’altro,  per  ritrovare il senso della nostra esistenza.  E senza pensare che leggere una buona poesia aiuta, in ogni caso, il benessere della mente:

«L’aspetto più interessante della relazione di Murthy, non è quello psicologico, arcinoto, quanto quello medico (anch’esso noto): le ricerche dimostrano che solitudine e isolamento innescano molteplici problemi al confine corpo-mente. Insonnia, alterazioni immunitarie, patologie cardiache, alimentari, algiche e ovviamente ansia, depressione, dipendenze da alcol e sostanze…».

Nell’incertezza del nostro tempo, sospeso fra guerre, violenze, preoccupazioni per un’economia in ginocchio e il marasma politico, la poesia rappresenta il baluardo difensivo capace di opporsi allo sgretolamento dei valori, in atto nella società contemporanea, alla superficialità, all’egoismo, alla violenza, all’intolleranza, all’odio, a tutta la miseria spirituale che sembra dilagare ovunque: non passa giorno che non arrivino notizie di violenze consumate ai danni di donne, bambini, ma anche di esseri più deboli, respinti, reietti, posti ai margini di una società purtroppo sempre più chiusa, vittima, essa stessa, di quanto ha prodotto in termini di conquiste, soprattutto tecnologiche. Di qui l’esigenza, oggi fortemente sentita, di costruire, attraverso la parola poetica, una ‘parola’ ancora capace di colpire e scuotere nel profondo, un argine contro quell’”autismo corale” di cui parla il nostro poeta, paesologo, Franco Arminio in riferimento a quella condizione di autoisolamento sociale che ci vede rinchiusi dietro i nostri piccoli schermi, impegnati in una comunicazione che ha perso ardore e vitalità. In realtà contro questo spettro  Arminio si batte da tempo, offrendo le sue parole come fiaccole per illuminare il presente, e impartendo, instancabilmente, in giro per l’Italia la sua lezione di ‘umanità’, costruita sulla verità delle cose semplici, della natura e dei borghi abbandonati. La cura invocata passa sempre attraverso una lingua che si fa strumento di conoscenza, alla ricerca di una comunicazione, di un senso condiviso, di quella intima vicinanza della quale abbiamo tutti, più che mai, bisogno.

Non sorprende allora che il Coordinamento Nazionale Docenti dei Diritti Umani si sia fatto convinto sostenitore dell’importanza del linguaggio poetico invitando i docenti della scuola secondaria, di primo e secondo grado, ad avvicinare gli studenti alla poesia, la più eccelsa forma d’arte che sa nutrire l’animo umano di bellezza come nessun’altra:

«La poesia, promotrice unica di bellezza, verità e sensibilità tra gli uomini, trasmette sentimenti, emozioni, dolore, disperazione. È la parola magica che parla degli uomini e sa parlare agli uomini …la strada che permette di arrivare alle ragioni più autentiche che muovono le nostre scelte e la vita stessa…. La violenza, la volgarità, i sentimenti di ostilità, intolleranza e diffidenza hanno invaso il quotidiano e hanno scavato abissi tra uomini e uomini. La poesia può costituire quel collante d’amore che avvicina e, con la sua parola portare bellezza, tessere relazioni umane».

Sono le parole pronunciate da Rosa Manco, Presidentessa del Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina Diritti Umani, in occasione della Giornata Mondiale della poesia, istituita nel 1999,  che, come sappiamo, si celebra il 21 marzo di ogni anno.

Il poeta si trova oggi di fronte a un mondo che va riletto in una chiave nuova, in questo senso ben venga l’invito espresso da Rosa Manco: «Italiani, stranieri, antichi, moderni. Non importa. Facciamoli vivere, i nostri poeti. Lasciamo che ancora ci raccontino i traviamenti dell’uomo di sempre che si può smarrire, ma sa anche andare avanti fino a ritrovarsi». Il poeta è investito oggi, e più che mai, di una grande responsabilità, che è quella di offrire la sua poesia come viatico salvifico, ‘necessario’ a ridare spessore alla vita ritrovando tutta la forza di una comunità di valori praticati e condivisi.

Questa riflessione sulla ‘necessità’ della poesia oggi sorge spontanea a proposito del bel volume di Orsola Supino, Lunaticamente. Appunti di una sognatrice, da lei stressa definita “una sorta di ”Booknotes”, che consente di annotare pensieri, sensazioni e idee  suscitate in chi legge. In definitiva un libro interattivo, unico nel suo genere, che porta il lettore attento a trasformare ciò che scorre sotto i suoi occhi in immagini o parole, stimolando il pensiero creativo, in realtà lavorando sulle evocazioni della ‘parola’ e sui moti dell’animo. Già il titolo  Lunaticamente. Appunti di una sognatrice caratterizza bene questa raccolta poetica, e ci illumina sull’operazione compiuta dall’autrice, poetessa e performer, incline ad esprimersi attraverso  le più affascinanti forme  dell’arte, dalla poesia alla pittura, entrambe vissute come espressione pura di emozione e soprattutto sollievo dell’animo. Senza alcun dubbio un’artista versatile, organizzatrice di eventi culturali, mostre, collettive e personali, capace di mettersi in gioco sempre, aprendosi anche a nuove forme di espressione e di comunicazione (mi riferisco  all’uso in pittura di tecniche miste, ma anche  alla stessa  ”avventura” di “Clowndottore”, com’ella stessa ama definirsi, un’esperienza praticata nei lunghi mesi del lockdown, che è poi la cifra del suo modo di vivere l’Arte) .

Nella bella silloge poetica presentata a Villa Amendola l’Autrice tesse una raffinata trama di parole-simbolo, in una dimensione ‘sognante’  di  notte stellari e di lune splendenti che illuminano, attraverso sapienti giochi di colore, il buio tetro della notte: immagini  di una umanità dolente, che procede in bilico tra speranze e sconfitte, in una notte  “di abbracci in sospeso”, “di rose appassite/ e di quelle appena nate”: “notte di dolori e di rumori”. Una poesia che si alimenta di ‘speranze’ e di attese, e  ci consente, anche nei momenti più bui, la possibilità di sollevare lo sguardo e scoprire, oltre le “finestre aperte,,,,/un cielo pieno di stelle” (Finestre). O ancora di cogliere nel sopraggiungere della primavera la possibilità di un sorriso, o il barlume di un’emozione, in grado di scuotere l’animo, strappando via “il gelo” della superbia “dai cuori ibernati di egoismo”(Marzo). «La poesia, confessa l’Autrice, rappresenta per me un mondo. Ogni volta nuovo, ogni volta con nuove sensazioni. Mi permette di esprimere me stessa. Riesco a canalizzare un mio dolore o una mia gioia che, per paragoni o per accostamenti, fanno una sorta di terapia al mio stato d’animo».

È questo il senso della sua poesia, stilisticamente elaborata, veicolo ‘estemporaneo’ di sentimenti ed emozioni, concepita nella solitudine di quel “tempo senza tempo”, introdotto dal lockdown, che noi tutti ben conosciamo,   e vissuta, al pari della pittura, come cura dell’anima. Una condizione di solitudine ‘assordante’, che dispone il suo animo a un dialogo continuo e inteso con la luna, immagine-simbolo, e nucleo fondante della sua ispirazione poetica: “l’unico collegamento con gli altri, la luce che illumina tutto e tutti  nelle notti cupe e solitarie”.    Sappiamo che da San Francesco (“sorella luna”), al “Divin poeta” e fino ai giorni nostri la luna è divenuta via via un vero e proprio topos letterario, per Calvino (di cui ricorre quest’anno il centenario) esprime la leggerezza, il silenzio, la calma: «Chi ama la luna» – scrive Calvino in una lettera alla Ortese (“Corriere della sera”, 24 dicembre 1967)  –  «davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella Luna, vuole che la Luna dica di più». E per Orsola Supino, una ’sognatrice’ che affida al chiarore della luna, il suo messaggio di speranza, la luna dice davvero di più, testimoniando, in prima persona, la ‘necessità’ per l’uomo di andare avanti comunque, e di non arrendersi mai. (È miele/la metà di me,/la parte dolce e amara/le lacrime di zucchero/ il pungente sapore di nostalgia./È una piccola sognatrice/con in mano caramelle/e clessidra di bolle/di sapone/come piume di attimi/che volano/per perdersi nel cielo/pieno di stelle). Orsola Supino presta particolare cura al linguaggio. E il Linguaggio, si sa, dopo Heidegger, è appunto la ‘dimora’ dell’Essere. Anche il Linguaggio della poesia.

Orsola Supino sperimenta sulla ‘parola’, la sua inclinazione a comunicare attraverso forme diverse di espressione artistica,  sfruttando quella passione per le arti performative, che ne fanno un’artista, indubbiamente singolare nel panorama della poesia contemporanea.

Ebbene l’incontro, dedicato a questa splendida silloge poetica, viene incontro non solo alla ‘necessità’ della poesia, nel senso che abbiamo indicato, ma anche al bisogno, direi all’urgenza  di sentirci parte di un’umanità pensante, alla ricerca di un senso condiviso, capace di cogliere nella potenza vivificatrice della cultura, la forza per rinascere. E mi pare che sia proprio questo lo spirito che anima gli incontri che, ormai da un triennio, Annamaria Picillo, in qualità di Direttrice artistica della Rassegna “Avellino letteraria”, porta avanti con notevole sensibilità culturale,  impegnandosi senza risparmio, e con passione,  per la crescita culturale e civile del nostro territorio.

 

 

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