Milena Montanile
La figura di Luisa Sanfelice, a tutti nota come eroina e martire della rivoluzione napoletana del ’99, ben si addice alla Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne che dal 1999 si celebra il 25 novembre di ogni anno. Ebbene, a parte i casi legati alla controversa vicenda politica di cui si dirà più avanti, si può dire che la morte atroce alla quale Luisa Sanfelice fu condannata, l’11 settembre del 1800, ne fa l’emblema di ogni tipo di ingiustizia e di violenza che da secoli si continua a perpetrare sulle donne, a dispetto di feste ‘in difesa’ e di ricorrenze effimere. Di drammatica evidenza la descrizione che di questo episodio ha reso Alessandro Dumas padre nel suo romanzo La Sanfelice, pubblicato nel 1864, e ristampato nel 1999, in cui racconta con toni di crudo realismo gli ultimi istanti della vita della Sanfelice, nel momento in cui la giovane e sfortunata donna, condotta al patibolo, in Piazza Mercato (luogo deputato. da quasi sei secoli, alle esecuzioni), fu decapitata dal boia, dopo essere stata sgozzata con un accanimento che toccò momenti di atroce e inaudita violenza
Luisa capì che l’ora era giunta. Si strappò dalle braccia del marito e fece barcollante un passo verso il boia dicendo: “Mio Dio, mi metto nelle vostre mani”. Poi cadde in ginocchio, poggiando da sé la testa sul ceppo: “Sto bene cosi, signore?” chiese. “Si” rispose seccamente il boia.” Non fatemi soffrire, vi prego”. Il boia, in un silenzio di morte, alzò la mannaia.
Ma, sia che la sua mano non fosse troppo sicura, sia che l’arma non avesse il peso giusto, il primo colpo produsse una larga ferita nel collo della vittima ma non tagliò le vertebre. Luisa dette un urlo e si rialzò sanguinante battendo l’aria con le mani.Il boia l’afferrò per i capelli che le restavano, la piegò sul ceppo e la colpì una seconda e una terza volta tra le imprecazioni della folla, senza riuscire a staccare la testa dal tronco. Al terzo colpo, pazza di dolore, invocando l’aiuto di Dio e degli uomini, Luisa, grondante di sangue, gli sfuggì dalle mani per gettarsi in mezzo alla folla, quando il boia, abbandonando la mannaia e afferrando il suo coltello da sgozzatore, bloccò la povera martire cingendola col braccio e glielo conficcò al di sopra della clavicola. Il sangue uscì a flotti: l’arteria era stata recisa. Stavolta la ferita era mortale. Luisa, in un sospiro, levò gli occhi al cielo, poi si accasciò.
Ora torniamo indietro per cercare di ricostruire i casi della vita di questa sventurata donna, icona della rivoluzione giacobina napoletana, sicuramente una figura inquieta e controversa: biasimata in Italia per la sua condotta mondana, ed esaltata in Francia come martire ed eroina rivoluzionaria. Figlia di don Pedro de Molina, generale borbonico di origine spagnola, e di Camilla Salinero, appartenente a una famiglia di militari genovesi, Maria Luisa Fortunata de Molina (1764-1800), nota come Luisa Sanfelice, assunse il cognome del marito, il cugino, nobile napoletano Andrea Sanfelice (1763-1808), cui era andata in sposa giovanissima, all’età di diciassette anni (1781), per volontà della madre. Nella nobiltà del Regno di Napoli – scrive Croce – si annoveravano i Sanfelice, duchi di Bagnoli, i Sanfelice duchi di Acquavella e i Sanfelice duchi di Lauriano [Laureana Cilento] e di Agropoli. Il cognome Delli Monti era stato aggiunto per ricordare membri della famiglia estinti all’inizio del Settecento. E dunque un matrimonio combinato, com’era in uso nell’aristocrazia del tempo. Andrea Sanfelice (1763-1808), cadetto della famiglia dei duchi di Lauriano (oggi Laureana Cilento) e di Agropoli, si rivelò presto un giovane vanaglorioso, amante del gioco, sfaccendato e sperperatore: “Due ragazzi di poca testa l’uno e l’altra”- li definisce senza mezzi termini Croce, “lo sposo specialmente, sciocco, fatuo, vanaglorioso, fannullone, spendereccio; ma anche con pochi mezzi, essendo egli cadetto con assegno non largo, e avendo Luisa, figliola di un militare, recata scarsa dote”. “La loro vita di famiglia volse così a rapida rovina” (B. Croce, Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher, 1a ediz. 1888). Una vita caratterizzata da continui problemi economici e dai tentativi del re di risanare le loro finanze. La loro condotta irregolare e dissipata richiamò più volte l’attenzione della corte. Per il rischio di dissesto, e su richiesta della madre di Luisa, essendo in uso per le famiglie nobiliari la possibilità di istituire una ‘soprintendenza’ e cioè una sorta di curatela con amministrazione giudiziaria, il re ordinò ai coniugi Sanfelice, nel 1787, di recarsi in campagna a Lauriano (oggi Laureana Cilento), e di rinchiudere i tre figli in convento: il maschio a Montecassino, le due femmine nel monastero della Trinità a Magnocavallo, mentre i loro beni furono affidati all’amministratore, il marchese Tommaso de Rosa.
Dopo varie vicissitudini i Sanfelice decisero di soggiornare per vari anni a Laureana Cilento e poi ad Agropoli, feudi della loro casa. É dunque già ben evidente il rapporto strettissimo che la famiglia di Luisa ebbe, per eredità paterna, col Cilento. Ma anche qui, testimonia Croce, i coniugi continuarono “a menare la solita vita rilasciata e scorretta”.
Giunta ad Agropoli Luisa visse per lo più una vita mondana da ‘castellana’, cosicchè, a causa della loro vita dissipata, il re su proposta di de Rosa, dispose che i coniugi fossero separati: Andrea finì in un monastero a Nocera, e Luisa nel conservatorio S. Sofia di Montecorvino Rovella. Di lì a poco cominciarono ad arrivare le prime notizie dei moti francesi e repubblicani a Napoli. Il 7 marzo del 1794, Luisa e Andrea fuggirono con un espediente nella loro casa a Napoli, a Largo Carità. Dopo tre anni, nel 1797, Andrea, nuovamente inquisito per debiti, con un mandato di cattura dal carcere della Vicaria, approfittando del nuovo corso politico che imponeva difesa e salvaguardia del potere sovrano con caccia ai giacobini, e agli oppositori del re, si dichiarò realista, cioè obbediente al re, riuscendo così a ottenere incarichi pubblici. A partire da questo momento le notizie sono incerte e prive di riscontri storici, sia per quanto riguarda i presunti tradimenti coniugali di Luisa, e sia per le sue scelte politiche. Si sa con certezza che cominciò a frequentare indifferentemente ambienti monarchici e repubblicani, corteggiata da monarchici come l’ufficiale di cavalleria Gerardo Baccher, rampollo di una ricca famiglia svizzera, e repubblicani come il procuratore dei suoi beni Vincenzo Cuoco (1770-1823) e il cancelliere Ferdinando Ferri, appartenente a una famiglia di magistrati, e convertito alla repubblica sull’esempio del suo maestro, Luigi Serio.
Con la proclamazione della repubblica nel gennaio del 1799, Luisa frequentò di buon grado gli ambienti repubblicani, che instaurano a Napoli una repubblica democratica, difendendo il diritto all’insurrezione, la lotta all’omertà, l’abolizione del feudalesimo, la separazione fra stato e chiesa, ispirandosi direttamente ai princìpi della Rivoluzione Francese. Quando nel gennaio del ’99 si formò la repubblica, Luisa partecipò con entusiasmo ai sontuosi festeggiamenti degli ambienti repubblicani. Nel salotto della Pimentel conobbe Ferdinando Ferri, e se ne innamorò, stante alla ricostruzione di Pietro Colletta (Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, Capolago, 1834). Da questo momento per Luisa Sanfelice cominciò un periodo di impegno assiduo: assistenza ad anziani e bambini, cura dei malati, distribuzione di materiale di divulgazione dei principi rivoluzionari; cantò al Teatro San Carlo l’inno patriottico scritto da Domenico Cimarosa (1749-1801); piano pano si perfezionò la sua coscienza democratica, studiò e apprezzò le opere di Rousseau (1712-1778), soprattutto il Contratto sociale e La nouvelle Heloise; lesse le gazzette francesi che arrivavano a Napoli, scrisse testi rivoluzionari educativi per il Teatro dei Burattini; guidò delegazioni francesi a Ercolano e Pompei per educare il popolo all’amore per l’arte e per l’antico. Rivoluzionari e realisti rimasero affascinati dal suo giovane e gioviale entusiasmo. Oltre al cancelliere Ferdinando Ferri, ardente repubblicano, si invaghì di lei il Cuoco, ma anche Gerardo Baccher, figlio di un ricco banchiere che insieme ad altri fratelli finanziava l’opposizione borbonica, tessendo trame contro la nuova repubblica. E proprio Gerardo Baccher, senza volerlo, fu l’anello di una catena che portò Luisa al patibolo Difatti invaghitosi di lei, la mise al corrente di una imminente rivolta controrivoluzionaria, a favore della monarchia, e contro la neonata repubblica, consegnandole un salvacondotto da esibire in caso di pericolo. Qualcuno le aveva confidato che nella notte di san Bartolomeo sarebbero stati uccisi i giacobini senza bollettino di fedeltà ai Borbone e le navi inglesi e siciliane avrebbero bombardato Napoli.
Luisa, preoccupata per le sorti di Ferdinando Ferri di cui era innamorata, preferì consegnare a lui il salvacondotto. A partire da questo momento gli avvenimenti si susseguono con ritmo incalzante per convergere verso il tragico epilogo: il Ferri, ricevuto il salvacondotto, comunicò la notizia della congiura antirepubblicana al Cuoco che a sua volta decise di riferire al Governo Provvisorio della Repubblica: ne derivò l’arresto di Gerardo Baccher e dei suoi fratelli. In realtà pare, secondo altre fonti, che non già il Ferri, indicato dal Colletta, ma il Cuoco, fosse “l’amante repubblicano” di Luisa. Indubbiamente, osserva Croce, se al Ferri si deve “la prima rivelazione e la scoperta della congiura” una parte assai più cospicua nell’accaduto ebbe il Cuoco che era solito frequentare la casa della Sanfelice, in qualità di procuratore del marito, e che sicuramente fece da guida e consigliere nelle relazioni che la Sanfelice ebbe in quella occasione con la polizia e col governo repubblicano. E ancora, a proposito delle insinuazioni circa il vero ‘amante repubblicano’ della Sanfelice pare inverosimile, come osserva Croce, che “ella avesse voluto ‘premurosamente’ comparire in pubblico in compagnia del suo amante, reale o supposto, segreto o notorio che fosse”.
Il 13 aprile 1799 un articolo della Pimentel sul «Monitore repubblicano» rivelò che Luisa aveva scoperto e denunciato con Vincenzo Cuoco una congiura filoborbonica (“Una nostra egregia Cittadina”, scriveva, “Luisa Molina Sanfelice, svelò venerdì sera al Governo la cospirazione di pochi non più scellerati che mentecatti…e ugualmente con lei è benemerito della patria il cittadino Vincenzo Cuoco”). Luisa riuscì così a sventare una cospirazione sanfedista e reazionaria contro i repubblicani, divenendo così, forse involontariamente, “salvatrice della repubblica e madre della patria” (secondo la ricostruzione di Pietro Collettta), e attirandosi il desiderio di vendetta del re Ferdinando IV (1751-1825). Gerardo Baccher fu arrestato insieme al padre e al fratello. Ma lei stessa rimase sconvolta dalla piega che avevano preso gli eventi, sentendo gravare sulla sua persona la responsabilità degli arresti e temendo per la vita di Gerardo Baccher.
Intanto i giacobini, grazie alla mossa della Sanfelice, venuti a conoscenza del piano controrivoluzionario, fucilarono alcuni leader della congiura, tra cui proprio i fratelli Baccher. Da qui in avanti gli eventi precipitarono: il re, venuto a conoscenza dei fatti, ordinò al cardinale Ruffo l’arresto della Sanfelice “e di un tal Vincenzo Cuoco che scoprirono la controrivoluzione dei realisti”. Luisa Sanfelice divenne così simbolo di tradimento per i Borbone e per i loro seguaci, mentre cresceva il desiderio di vendetta da parte del padre dei Baccher, profondamente scosso dall’esecuzione dei suoi figli. I fatti che seguirono sancirono il declino della vita della giovane donna, all’epoca dei fatti trentaseienne. Processata, cercò di evitare la condanna a morte fingendo una gravidanza inesistente, certificata da medici compiacenti. Tuttavia, smascherata dai medici di Palermo, dove fu trasferita per il processo, andò incontro a morte atroce, dopo ripetuti rinvii a causa della dichiarata presunta gravidanza, giustiziata, con raccapricciante accanimento in piazza Mercato a Napoli l’11 settembre del 1800. Di fronte a un simile orrore finanche la folla a Napoli “si era stretta a favore della sventurata donna” (Croce). Luisa riposa ora nella cripta del Carmine Maggiore, insieme agli altri martiri del ’99.
La Sanfelice, dunque, in virtù delle vicende cui si trovò coinvolta e che ne fecero, suo malgrado, un’eroina tragica, fu sicuramente vittima della storia, e ciò al di là del severo giudizio di Croce che negò consapevolezza politica alle azioni della Sanfelice (“Vogliono alcuni che Luisa s’invaghisse delle nuove idee, ma di ciò gli scrittori contemporanei non sanno nulla, e a me pare un’induzione fantastica di tempi posteriori”), giudicando la Sanfelice una donna «di poca testa» e debole, “sposa sfortunata”, “innocente dell’accusa di repubblicanesimo”, vittima del «fato di bella giovane donna, rea di amore o per amore». Ma che il suo atto sia stato dettato da amore o per amore, che sia martire involontaria o eroina per caso, resta inconfutabile il suo desiderio di donna libera, e tutta la sua triste vicenda, fino al sacrificio finale, altro non è se non l’espressione di una ribellione contro ogni forma di ingiustizia e di sopraffazione. Ignara ed innocente, colpevole solo per aver dato voce alla generosità del suo cuore, Luisa resta donna libera e indipendente, al di là e al di sopra di ogni opinione di governo e di ogni spirito di partito.
Luisa Sanfelice è sicuramente un personaggio controverso, consegnato alla storia come vittima della rivoluzione napoletana del ’99, divenuta, poi, nell’immaginario comune un’eroina tragica. Le vicende intricate della sua breve vita hanno dato l’abbrivio per una vera e propria ‘inchiesta storica’: la Sanfelice fu davvero un‘eroina, una vittima innocente, o una casuale comparsa di una scena troppo grande per lei? Qualunque sia la risposta cui la storiografia sia pervenuta è ben evidente che i casi cui andò incontro, contribuirono a farne una figura quasi leggendaria, testimoniata dalla sua fortuna letteraria. I casi della sua vita hanno colpito l’immaginario di scrittori, poeti e artisti che l’hanno celebrata nella letteratura, nel teatro, nel cinema. Oltre al già ricordato romanzo di Alexandre Dumas padre (1864), e alle opere storiche di Pietro Colletta, e soprattutto alla prima documentata ricostruzione di Benedetto Croce, la figura della Sanfelice torna sublimata nelle due tele di Gioacchino Toma, pittore attento alla dimensione domestica e quotidiana degli affetti, dimensione che riuscì a trasferire anche nei soggetti storici: mi riferisco alle due tele, due versioni dello stesso soggetto, raffiguranti Luisa Sanfelice in carcere, incinta, in atto di cucire un abitino per il presunto bimbo da lei atteso, all’interno di una cella che, secondo la tradizione letteraria, è situata a Napoli a Castel Sant’Elmo. La prima versione del dipinto, eseguita nel 1874, è custodita a Napoli nel Museo di Capodimonte. La seconda invece, di poco posteriore, che ritrae la donna specularmente seduta sulla sinistra, è custodita al Palazzo delle Belle Arti di Roma. Dipinto poi acquistato dallo Stato su sollecitazione di Domenico Morelli. Un altro dipinto di soggetto storico ritrae Luisa Sanfelice condotta in carcere, opera di Eurisio Capocci, un artista napoletano di accesi sentimenti liberali, poco conosciuto, ma autore di opere significative di rievocazione e di celebrazione del Risorgimento italiano. La tela, attualmente conservata al museo di San Martino, è un opera particolarmente riuscita, per la capacità espressiva, nella quale l’autore seppe immortalare la sofferenza della povera Luisa. Un dramma di una lacerazione profonda, espresso nell’esile figura della donna, che, condotta in carcere, viene portata quasi in braccio dalla guardia, tanto è il dolore per un’accusa sentita come atroce e ingiusta. Una tela che non è solo una riuscita opera d’arte, per gli efficaci chiaroscuri, per la perfetta stilizzazione dei personaggi, per l’intensità dei volti che ben esprimono il dramma della donna, ma anche una testimonianza di indiscutibile valore storico e culturale. Di quattro anni posteriore (1878) un altro dipinto, olio su tela, che ritrae ancora una volta L’arresto di Luisa Sanfelice, opera di Modesto Faustini, acquarellista lombardo, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento.
La vicenda della Sanfelice ha alimentato anche una nutrita filmografia, liberamente ispirata al romanzo di Dumas, dal film di Leo Menardi del 1942 alla miniserie televisiva di Leonardo Cortese (Leo Passatore) in onda in sette puntate, tra il 15 maggio e il 26 giugno del 1966, a quella successive dei Fratelli Taviani, trasmessa in prima visione su Rai 1, il 25 e il 26 gennaio del 2004.
La Sanfelice, ricordata come eroina e martire della Rivoluzione, dopo oltre due secoli continua a parlarci, offrendo di sè un’immagine di donna libera e passionale, sicuramente ‘vittima’ della storia, che rivendicò col suo agire quei valori di giustizia e libertà da cui, oggi più che mai, è necessario partire per un’auspicata rinascita.