“Per me la letteratura comincia proprio dall’infedeltà ai perimetri. Ogni luogo, ogni corpo è una scrittura che dobbiamo imparare a leggere senza il setaccio del verosimile ma aprendoci all’impensato, all’invisibile. Ognuno dei noi è la mamma dei suoi giri intorno a una terra che non c’è”. Spiega così Franco Arminio l’idea da cui nasce “Caraluce”, la sua ultima raccolta, edita da Rizzoli. Un atlante dei paesi invisibili, impreziosito dalle illustrazioni di Manuele Fior, che richiama le Città di Calvino ma anche Henry Michaux e Gianni Celati ma nasce innanzitutto da quella che l’autore definisce “una lieve stanchezza arrivata dove aver visto migliaia di paesi veri”. Come il paese delle vedove in cui ” si piange molto e le lacrime vengono immerse nella rete idrica” e nella piazza campeggia uno striscione con la scritta “Nessuno tocchi le nostre lacrime” o la bellissima Menapoco in cui è rimasta solo la gentilezza fino al paese nato da un colpo di tosse “Gli uscì il paese che aveva dentro”. O ancora Nufrio, il paese in cui si cammina sulla punta delle dita. Poichè scrivere, ribadisce Arminio, è un gesto “avventuroso, è sottrarsi alle dogane dei nostri giorni che non ci fanno più immaginare altri mondi”. Una geografia, quella che consegna il paesologo-poeta, che finisce sempre con l’offrire uno sguardo sulla condizione dell’uomo e sull’Italia intera, così a Boscomatto viene un senso di dolore poichè nessuno smette mai di parlare e niente come le chiacchiere distrugge le anime “il guaio – scrive Arminio – è che non ti raccontano cosa sentono, non ti dicono qualcosa che li ha commossi, non ti parlano di una gioia, di uno spavento. Ti raccontano quello che già sai”.
L’universo che disegna Arminio è sempre uno spazio governato da autenticità e delicatezza, emozioni e natura come in Solomita “dove in piazza crescono ortiche”, in cui non c’è bisogno di fingere quello che non si è. Così in Iovino gli abitanti sono tutti timidi “Possono arrossire anche davanti alle rose e ai gelsomini fiori, davanti ai loro gatti o a una giacca che non mettevano da anni”. Hanno capito presto che non serviva a nulla curarsi, convinti che “La timidezza di Iovino è un modo di lambire divino”, Mentre Cominardo, che tutti pensano non esista, ci ricorda “la vera quotidiana intensità di un pomeriggio qualsiasi”. Arminio gioca con paradossi, superando limiti, come Ninaverde, un paese intero costruito in uno sbadiglio.
Centrale, ancora una volta, il tema dello spopolamento, della lenta morte dei paesi, se sono abbandonati a loro stessi, così leggiamo di luoghi in cui non va più nessuno, tanto che nessuno ha mai spostato il sasso che interrompe la strada che conduce a Morasugna. Sono talvolta paesi in cui nulla accade “L’ultima storia importante è una molletta caduta da un balcone”. Franco Arminio, aiutato dalle immagini di Manuele Fior, in cui si fondono metafisica e mondo onirico, surreale e reale, lascia che sia la fantasia a disegnare spazi e universi, ricordandoci che “Noi siamo geografia, siamo terra scritta e su questa terra passano i pensieri come passa l’ombra di una nuvola sul prato”. Sono paesi che palpitano di vita o rimasti immobili come Flautonno “Hanno trasformato il paese in un acquario e si sono messi dentro. Fanno la parte delle anfore, dei coralli finti”. O ancora Oniria che non è un paese ma “uno spettacolo teatrale dove non accade niente. Il regista che lo ha concepito da anni è in manicomio”. Fino ad Atracena che “scorre come in tutti gli altri paesi, ma c’è un fondo di resa, un disarmo che rende nobilissimo questo luogo”. Scorrendo le pagine, è possibile scoprire che c’è una grande buca in cui seppelliscono Bucagrande e tutti i suoi abitanti, senza che nessuno se ne accorga, un cimitero dei paesi, che passa inosservati, poichè “I drammi passano inosservati”. Sono luoghi sull’orlo di un precipizio spirituale e fisico come Topisarda “costruito sopra il fiume e scorre verso il mare. Lo sente che sta per annegare”.
Eppure proprio i luoghi ci possono salvare “Poichè hanno un potere di guarigione straordinaria. Di qui l’idea dei paesi invisibili che “rispondono a questa fame di luoghi: ne ho messi al mondo altri, come se quelli che ci sono non mi bastassero. Se Pasolini aveva fame di corpi, io ho fame di luoghi. Ho fame della luce che c’è adesso in un certo paese e di come parlano le persone, quale intonazione collettiva hanno”. Un bisogno, il suo, di continuare a mettere al mondo, come se non fosse mai venuto al mondo, un’ansia di maternità che è anche nostalgia della madre. Poichè “L’invisibile è il veri garante del visibile, ci esercita a vedere le cose in modo avventuroso perchè è l’unico modo in cui amano essere viste”