di Giampiero Galasso
In occasione della Giornata Internazionale della Donna che prevede l’ingresso gratuito per le visitatrici nei musei statali italiani (tra cui il Museo Archeologico di Bisaccia, che aderisce all’iniziativa promossa dal MiC), risulta particolarmente rilevante ricordare una scoperta archeologica che restituisce dignità e visibilità al ruolo femminile nelle antiche comunità indigene dell’Irpinia orientale: la cd “Tomba della principessa”.
Questa sepoltura, tra le più significative dell’archeologia preclassica del Mezzogiorno, rivela la complessità delle dinamiche sociali e culturali in Irpinia durante il periodo orientalizzante, intorno al secondo quarto del VII secolo a.C. Il ritrovamento, effettuato nel 1976 sulla collina di Cimitero Vecchio di Bisaccia a opera dell’archeologo Gianni Bailo Modesti, non ha portato al recupero dei resti ossei della defunta (scomparsi per la particolare composizione chimica del suolo), ma ha evidenziato un corredo funebre di grande ricchezza e un sistema simbolico volto a sottolineare la parità formale tra i sessi, in una società in cui le donne – spesso trascurate nelle narrazioni storiografiche – rivestivano funzioni politiche, religiose e sociali di primo piano.
L’area in cui si inserisce il sito della necropoli di Bisaccia appartiene al contesto della “Cultura di Oliveto-Cairano”, diffusa tra le alture dei fiumi Ofanto e Sele, che si caratterizza per le forti influenze balcaniche e una rete di contatti che, tra fine VIII e fine VII secolo a.C., favorì lo scambio di modelli iconografici, tecnologici e rituali. In questo scenario, la struttura funeraria di Bisaccia non può essere analizzata singolarmente, bensì come parte di un più ampio sistema di pratiche funerarie e di memoria collettiva, in cui il culto degli antenati e la rappresentazione simbolica del potere si intrecciano in maniera profonda.
L’epoca orientalizzante, caratterizzata dall’intensificarsi dei contatti con il Vicino Oriente e dal trasferimento di influenze artistiche e religiose, costituisce così il contesto privilegiato per interpretare la tomba di Bisaccia. Diversi studi hanno evidenziato come le comunità indigene dell’Italia meridionale adottassero elementi culturali e rituali provenienti dall’oriente, adattandoli alle proprie tradizioni e alle peculiarità socio-politiche locali. Nel caso della “principessa”, la varietà e la ricchezza degli oggetti rinvenuti – tra i quali spiccano numerosi contenitori d’impasto e di argilla figulina (brocche, tazze, anforette) di pregevole fattura, accanto a manufatti in bronzo destinati al rito (come il fascio di tre spiedi in ferro), una serie di recipienti in lega di rame, tra cui bacini con anse lunate e una phiale baccellata e ben 51 bracciali ad arco inflesso in verga di bronzo rinvenuti all’altezza degli avambracci –, attestano l’alto status della defunta, inserita in una comunità che manteneva intensi rapporti commerciali e culturali con l’area etrusca campana e, più ampiamente, con il bacino del Mediterraneo orientale.
La struttura della tomba, che si presentava al momento della scoperta come una grande fossa terragna di forma quasi rettangolare, originariamente coperta da uno strato di pietre e ciottoli, con una lastra lapidea centrale che fungeva da segnacolo, è stata ricostruita in scala 1:1 all’interno del Museo Archeologico di Bisaccia, dove oggi può essere ammirata da studiosi e visitatori, configurandosi come un laboratorio interpretativo unico, capace di integrare le evidenze materiali con le più recenti metodologie di analisi, che hanno permesso di ricostruire in maniera dettagliata la struttura del cavo tombale, rivelando una complessità costruttiva che testimonia interventi rituali multipli e una continua elaborazione simbolica del luogo della sepoltura. Lo scavo aveva, infatti, rivelato un recinto delimitato da pietre calcaree, articolato in due momenti: il primo risalente all’atto di inumazione, il secondo riconducibile a un successivo rito di “culto memoriae” volto a perpetuare la figura della defunta nella coscienza collettiva. L’integrazione del secondo recinto viene proprio interpretata come il tentativo di “fissare” la memoria della donna e di tramandarne l’influenza alle generazioni future, secondo una concezione in cui il passato viene costantemente rielaborato nel presente.
Uno degli aspetti più sorprendenti di questa sepoltura, e che ha suscitato grande interesse nella comunità scientifica, è l’abbigliamento funerario quasi completamente ricoperto da elementi in bronzo. L’analisi dei reperti indica che la defunta indossava un copricapo conico in metallo, un panno fermato sulla fronte da anelli e un complesso abito costituito da una mantellina, decorata con centinaia di bottoncini metallici, e da una lunga gonna impreziosita da altrettanti bottoni in bronzo di diverse dimensioni, oltre a una fascia di anelli e dischi in lamina di bronzo cuciti lungo una spessa fascia sull’orlo: un capolavoro artigianale con valenza simbolica, volto a comunicare poteri e prerogative eccezionali.
La presenza sul petto di fibule rivestite da ambra rossa intagliata e osso e fibule da parata – dotate di doppia spirale da cui partivano un gruppo di pendagli (spiraline e anelli) in grado di emettere suoni anche con piccoli movimenti – fa ipotizzare che il rito funebre includesse una dimensione acustica, utilizzata per facilitare il passaggio dell’anima o evocare la presenza degli spiriti ancestrali. In tale prospettiva, la “principessa” risulta non soltanto una donna di altissimo rango, ma anche un possibile tramite tra il mondo dei vivi e quello divino, con un ruolo sciamanico o sacerdotale. L’impiego del bronzo negli indumenti funebri poteva poi essere concepito come un espediente per “cristallizzare” la defunta in una condizione di eternità, in cui l’elemento metallico fungeva da ponte tra la sfera terrena e quella ultraterrena. D’altra parte, la defunta era accompagnata da oggetti che rimandano alla gestione delle risorse agrarie (olla da derrate ai piedi) e all’abilità tessile (tre rare fusaiole di bronzo), evidenziando un ruolo femminile ben più ampio della sola dimensione materna e includendo incarichi di natura economica e la trasmissione di saperi artigianali.
La collocazione della tomba in un punto strategico della necropoli, connessa a un insediamento indigeno attivo dalla fine del IX al VI secolo a.C., nonché la presenza di tombe di due bambini (un maschio e una femmina) e di due guerrieri seppelliti accanto, suggeriscono un’organizzazione sociale in cui il potere era trasmesso e condiviso all’interno di un nucleo familiare o clanico. In questa logica, la “principessa” non va considerata solo come figura simbolica, ma anche come esponente di un sistema in cui la maternità – vista come la capacità di generare e formare nuove élite – si poneva quasi su un piano di uguaglianza rispetto al ruolo militare maschile. Tale interpretazione apre la strada a una riflessione più ampia sul ruolo della donna nelle prime società mediterranee, suggerendo che la parità formale potesse essere realizzata attraverso una diversificazione delle funzioni sociali, in cui il potere veniva articolato su più fronti. E uno degli elementi più innovativi che scaturiscono dall’analisi di questa sepoltura riguarda proprio la parità di genere nelle comunità protostoriche: sebbene spesso descritte come rigidamente patriarcali, i dati di Bisaccia lasciano spazio all’idea che, almeno in questo contesto irpino, le donne potessero esercitare ruoli equivalenti a quelli maschili.
Le più recenti interpretazioni evidenziano, dunque, come questa sepoltura possa essere considerata un vero e proprio manifesto di potere simbolico e identità collettiva. L’idea che la “principessa” non sia un’eccezione ma rappresenti un possibile modello organizzativo delle comunità protostoriche dell’Irpinia orientale rende Bisaccia un caso di studio privilegiato, utile non solo per esaminare le usanze funerarie e le dinamiche di potere delle comunità orientalizzanti dell’Italia meridionale, ma anche per rivedere i paradigmi consueti sulla parità di genere nelle società antiche.
Rievocare la storia di questa donna di alto rango, sepolta con ornamenti di potere e prerogative di grande rilievo, assume così un valore speciale nel quadro della Giornata Internazionale della Donna. Oltre a rimarcare la complessità e la poliedricità dei ruoli femminili nel passato, invita a riflettere sull’importanza di tutelare e valorizzare la figura della donna in ogni epoca e cultura. Da un lontano passato ci giunge così il messaggio di una comunità irpina in cui la condivisione dei ruoli e il riconoscimento del prestigio femminile erano parti integranti dell’organizzazione sociale. Un monito, dunque, a recuperare il significato profondo dell’uguaglianza di genere e a diffonderlo, come allora, nel nostro presente.