Stefano Carluccio
Ogni estate, da giugno a settembre, i paesi dell’Irpinia si animano di luci, suoni, profumi e volti: sono le feste patronali, un appuntamento irrinunciabile che scandisce da secoli il ritmo delle comunità locali. Per molti, oggi, sono semplicemente un’occasione di svago, musica e cibo di strada, ma sotto il bagliore delle luminarie si cela qualcosa di molto più profondo: un intreccio di fede, identità collettiva e memoria che costituisce un vero e proprio patrimonio immateriale. E in un’epoca in cui le radici sembrano sempre più fragili, riscoprire il valore autentico di queste celebrazioni diventa un atto di consapevolezza culturale.
Nel cuore dell’Irpinia, ogni paese ha il suo santo, e ogni santo ha la sua storia. San Modestino ad Avellino, San Gerardo a Solofra, Sant’Anna a Montemarano, San Rocco a Torella dei Lombardi. Non sono semplici figure religiose, ma veri e propri simboli dell’identità collettiva. La devozione popolare li ha resi centrali nella narrazione comunitaria: il santo non è un’entità distante, ma “uno di noi”, capace di proteggere, guidare, punire o premiare. La processione che si snoda tra le strade del paese, con la statua portata a spalla dai fedeli, è molto più di un rito: è una rappresentazione vivente della memoria condivisa, un teatro sacro in cui ognuno ha un ruolo, anche solo come spettatore.
È questa dimensione partecipativa che trasforma la festa in patrimonio. Non si tratta solo della funzione religiosa, ma di tutti quegli elementi che ruotano intorno: l’artigiano che realizza i ceri votivi, la banda musicale che suona arie antiche, i dolci tipici preparati solo per l’occasione, il ricamo del vestito della statua, i racconti degli anziani sulle feste del passato. Tutti tasselli di un mosaico culturale che, messi insieme, raccontano l’anima di una comunità.
Tuttavia, negli ultimi decenni, qualcosa è cambiato. Le feste patronali sono diventate spesso eventi turistici o spettacoli di piazza, dove la dimensione religiosa viene affiancata – o a volte oscurata – da concerti, fuochi d’artificio e stand gastronomici. Non che tutto questo sia da condannare: le feste hanno sempre avuto una componente “profana”, e l’evoluzione è parte della loro vitalità. Ma quando l’aspetto spettacolare sovrasta quello identitario, c’è il rischio di trasformare un rito collettivo in un prodotto da consumare.
In questo senso, è interessante notare come l’UNESCO definisca il patrimonio immateriale: “le pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e abilità che le comunità riconoscono come parte del proprio patrimonio culturale”. Non oggetti, ma saperi e tradizioni, tramandati di generazione in generazione. Le feste patronali, in quest’ottica, sono perfettamente coerenti con questa definizione. La sfida, allora, è quella di conservarne lo spirito autentico, evitando che vengano svuotate del loro significato profondo.
Fortunatamente, in molti paesi irpini, resistono forme genuine di partecipazione. È il caso di alcuni comitati festa, che negli ultimi anni stanno cercando di recuperare le antiche pratiche: le questue porta a porta, le novene cantate, i canti devozionali, le “messe cantate” con cori popolari. Iniziative semplici, ma preziose, perché mantengono viva la trasmissione orale e il senso di comunità. Anche le scuole, in alcuni casi, sono coinvolte in progetti didattici legati alle feste patronali, trasformando la celebrazione in un momento educativo.
Un ruolo importante può essere giocato anche dai giovani, spesso ritenuti lontani da queste tradizioni. Eppure, proprio le nuove generazioni mostrano, a volte inaspettatamente, un forte interesse per le radici culturali. Non è raro trovare ragazzi che si avvicinano alla banda del paese, che imparano a suonare strumenti tradizionali o che si cimentano nella realizzazione di costumi e decorazioni. Con il giusto accompagnamento, le feste possono diventare un laboratorio di identità, dove il passato dialoga con il presente.
Certo, non si può ignorare la necessità di ripensare alcuni aspetti. I costi esorbitanti di certi spettacoli, il ricorso eccessivo a sponsor privati, il rischio di clientelismi nei comitati organizzativi sono problemi reali. Ma questi vanno affrontati non con l’abbandono della tradizione, bensì con un maggiore senso di responsabilità culturale. Le feste non devono diventare un peso economico né uno strumento politico, ma un’occasione di rinascita culturale.
Guardare “oltre il folklore” non significa sminuire la festa, ma al contrario valorizzarne tutte le sfaccettature: la religione, la storia, la comunità, l’arte popolare. E magari immaginare nuove forme di narrazione e documentazione: video, archivi digitali, podcast, mostre fotografiche. Strumenti moderni per raccontare tradizioni antiche.
Le feste patronali irpine sono, in definitiva, un bene prezioso. Non solo per chi crede, ma per chiunque voglia comprendere davvero l’anima di un territorio. Difenderle significa difendere il legame tra memoria e futuro. E in tempi di identità fragili, è proprio in questi riti condivisi che si può ritrovare un senso di appartenenza autentico, che nessun algoritmo potrà mai replicare.