di Rosa Bianco
Ieri sera, in un’atmosfera che sembrava sospesa fuori dal tempo, la Pinacoteca d’Arte Contemporanea di Montoro si è trasformata in un luogo di meditazione collettiva. Nell’ambito della rassegna “Estate in Pinacoteca 2025 – Dialoghi con gli Autori”, si è tenuto l’incontro con Franco Arminio, poeta, scrittore e “paesologo”, figura da anni impegnata nella custodia della fragilità dei territori e nell’ascolto silenzioso delle loro anime.
A introdurre la serata sono stati il Sindaco Salvatore Carratù e il viceSindaco Giovanni Gaeta, che hanno portato il loro saluto istituzionale ricordando come la cultura sia non solo ornamento, ma fondamento dell’essere civile. Hanno sottolineato che dare voce a chi narra i luoghi è un atto politico nel senso più profondo del termine: significa riattivare un’etica dell’appartenenza. A conclusione dell’incontro, Eliana Petrizzi, direttrice della Pinacoteca, ha saputo restituire al pubblico il senso ultimo dell’evento: la necessità di preservare uno sguardo sensibile sul mondo, capace di abitare anche ciò che non si vede.
L’epifania dell’invisibile
Franco Arminio ha presentato la sua ultima opera: Caraluce – Atlante dei paesi invisibili (Rizzoli, 2025). Ma parlare di libro è riduttivo. Caraluce è un atto filosofico, una topologia dell’anima. È un invito a cercare il significato dove apparentemente non c’è nulla: nei paesi abbandonati, nei sogni mai realizzati, nei gesti minimi che sfuggono all’algoritmo della fretta. Arminio non inventa per evadere, ma per rivelare. I suoi “paesi invisibili” sono luoghi possibili dell’essere, aperture sull’“altrimenti” – un altrove che non si misura con la geografia, ma con l’intensità dell’esperienza interiore.
La “paesologia” come cura dello sguardo
Nel suo intervento, Arminio ha condiviso con il pubblico il percorso che lo ha condotto oltre la cronaca dei luoghi reali verso l’evocazione di paesi immaginari. La “paesologia”, da disciplina dell’osservazione minuta, si è fatta metafisica del quotidiano, tensione etica e lirica verso un mondo in cui la luce – quella di “Caraluce” – diventa segno di salvezza. Questi paesi “che non ci sono” non sono utopie, ma varchi poetici: simboli del bisogno umano di senso, comunità, e tenerezza. Ogni nome evocato è una domanda esistenziale rivolta al lettore: “dove abiti, davvero?”
Lo spazio della parola come luogo del sacro
Introdotto con finezza da Milena Acconcia, il dialogo ha preso la forma di un rito laico. Il pubblico, coinvolto e partecipe, ha colto l’occasione per interrogarsi su cosa significhi “abitare” oggi: quali sono i luoghi che ci abitano, e come possiamo non tradirli? In questo senso, “Caraluce” è anche un atto politico nel senso etimologico: polis come comunità del sentire, spazio condiviso che si fonda sull’ascolto e sullo sguardo reciproco.
Oltre la geografia: un atlante dell’anima
Arminio ha confessato di aver scritto questo libro “per guarire una lieve stanchezza”, non del mondo, ma dello sguardo su di esso. La scrittura diventa così pratica di sopravvivenza, gesto resistente che rifiuta la cancellazione dell’invisibile. E se la geografia tradizionale traccia i confini del noto, questo atlante poetico ne sovverte i criteri: non si mappa ciò che è esteso, ma ciò che è fragile; non ciò che esiste, ma ciò che attende di essere riconosciuto.
Una conclusione come inizio
Con voce assorta, Arminio ha lanciato un invito forte: “Serve un turismo della clemenza”, ha detto. “Andate nei borghi che si stanno svuotando, non per fotografarli, ma per ascoltarli. È un atto d’amore: la clemenza è uno sguardo che non giudica, che consola”. In queste parole, la paesologia si trasfigura in una pratica filosofica dell’abitare: non solo geografia del luogo, ma geografia dell’empatia.
Una poesia per la pace
La serata ha raggiunto il suo vertice etico quando Arminio ha tenuto il suo discorso per la pace, nato dalla commozione per le notizie più recenti del conflitto tra Israele e Iran. Con parole colme di dolore e dignità, ha dedicato una poesia alla giovane poetessa iraniana Parnia Abbasi, morta a soli 24 anni sotto i bombardamenti, di cui ha evocato il volto e il silenzio:
“Nella tua terra la luce entra pure
nelle pietre e il sole resta perso
per giorni nel deserto.
Forse il giorno in cui sei morta
aspettavi un bacio,
non sapevi che l’ignoto
precipita in un angolo del petto
e un bruciante calore
ti fa lo sguardo vuoto.
Non sappiamo se poi vede Dio
chi muore, e non sappiamo se
una giovane poetessa
potrà dire che era felice
il giorno in cui è stata uccisa,
felice di sentire la sua pelle
baciata con amore.
C’è un lungo viale in cielo
In cui corrono le bombe
prima di cadere
come stelle cadenti
nel quadrato di una stanza
piena di libri, con un letto
e una chitarra
e una finestra da cui entrano
i versi e ora non può uscire
l’avventura degli occhi,
il tremore del cuore,
la sapienza purissima del respiro.
La guerra nasce dalla parola guerra,
nasce da chi la sta dicendo
ormai da troppo tempo.
Troppi hanno detto la parola
che ti ha ucciso.”
Il silenzio calato sulla sala non è stato vuoto, ma denso: un silenzio sacro, in cui la poesia ha riacquistato il suo statuto originario di parola necessaria. Nelle parole finali di Eliana Petrizzi è emersa la consapevolezza che serate come questa sono semi di consapevolezza, micro-rivoluzioni dello spirito che restituiscono valore al tempo condiviso. “Ogni luogo raccontato da Arminio è un’epifania possibile. E Montoro, ieri sera, è diventata uno di quei luoghi.”
Così si è chiuso l’incontro, ma non il dialogo. Perché “Caraluce” non è un testo da archiviare, ma una voce da portare dentro, un invito a costruire, nel mondo visibile, luoghi in cui la poesia abbia ancora diritto di cittadinanza.