Non nascondono le loro preoccupazioni sul testo delle “Indicazioni nazionali della Scuola dell’Infanzia e del I Ciclo d’istruzione”, edito il 7 luglio sul sito del MIM la FLC CGIL di Foggia e gli autori del volume La Scuola non si fermi all’Occidente. Luci e ombre dei “Materiali” delle “Nuove Indicazioni Nazionali 2025”, prefazioni di Giuseppe Ciuffreda e Roberta Fanfarillo, a cura di Patrizia Granato, Rosa Anna Palumbo, Paolo Saggese, Edizioni Conoscenza, Roma, 2025, promosso dalla stessa FLC
“Innanzitutto, le richieste del CSPI – si legge nella nota di Cgil e autori del volume – sono state accolte soltanto parzialmente o non sono state per nulla accolte, in particolare relativamente alla separazione netta tra “Contenuti” e “Conoscenze ritenute rilevanti”, che rischiano di far diventare queste “Indicazioni” dei veri e propri “Programmi prescrittivi”.
In particolare ìl CSPI nel “Parere” pubblicato dal MIM il 30 giugno affermava: “Inserire le conoscenze in un box in appendice. Le conoscenze inserite dopo gli obiettivi rischiano di essere considerate prescrittive e non suggerite, come invece è giustamente indicato dalla Commissione incaricata della redazione del documento. La declinazione delle conoscenze rinvia alla logica del programma. Un eventuale utilizzo pedissequo delle conoscenze può stridere con l’autonomia scolastica […]” (p. 3).
Se si prende il testo delle “Indicazioni nazionali” nella versione definitiva, ad esempio a p. 56, le “Conoscenze” seguono ancora gli “Obiettivi” e da p. 57 sono elencati in modo particolareggiato i “Contenuti”. Dunque, questi ultimi non sono inseriti in “un box in appendice”. Gli estensori scrivono subito prima: “L’elenco di argomenti che segue intende semplicemente aiutare l’insegnante fornendogli la traccia di un possibile percorso didattico. Restando egli libero, naturalmente, di apportarvi le integrazioni e le modifiche che riterrà opportune, avvalendosi eventualmente di tutte le fonti documentarie, scritte e non, utili a illuminare aspetti e vicende del passato” (p. 57).
Ma tale precisazione non è sufficiente, secondo il CSPI, che richiedeva l’inserimento dei “Contenuti” in un apposito box in appendice”.
L’altro punto evidenziato è quello legato al ritorno alla scuola delle conoscenze, stigmatizzato ancora a p. 3: “L’accento marcato sulle conoscenze fa emergere, inoltre, una scuola dell’insegnamento trasmissivo, che contraddice non solo la funzione docente – come delineata dalla normativa – ma limita e comprime la ricchezza delle competenze che a detta funzione si riconnette”. Dunque, declinare i “contenuti” confusi con le “conoscenze ritenute rilevanti” non è considerato condivisibile. Andrebbe piuttosto “rafforzata l’autonomia delle istituzioni scolastiche nella scelta dei percorsi da realizzare” (p. 4). Si cita non a caso il “programma” di seconda primaria di Storia come paradigmatico di questa “confusione” e di questa prescrittività”.
Sempre a proposito della disciplina di “Storia” si ribadisce il pericolo di una visione eurocentrica: “L’incipit, tra l’altro, potrebbe essere percepito come polarizzante e la finalità dell’insegnamento della ‘Storia’ sembrerebbe accentuare la dimensione della disciplina come strumento per la costruzione di una identità nazionale più che come approccio tipicamente disciplinare”. Si sottolinea nella nota come “L’incipit “Solo l’Occidente conosce la Storia” è stato criticato da tantissimi studiosi e associazioni sindacali e di intellettuali. Nelle due pagine di premessa alla disciplina “Storia”, dal titolo “Perché si studia la storia”, il termine Occidente o “cultura occidentale” o simili sono tra l’altro citati ben 14 volte, a sottolineare una certa “ossessione” per l’Occidente, a cui si attribuisce una chiara superiorità culturale e intellettuale rispetto alle altre “civiltà” umane. Ci chiediamo: “Perché si studia la storia”? Si studia la storia forse per educare i giovani occidentali a maturare la convinzione che la propria cultura sia superiore a quella delle altre civiltà? Si studia la storia forse per forgiare un’identità nazionale e per favorire l’integrazione “di giovani provenienti da altre culture” (p. 55)? Quindi, la “storia” non serve a comprendere il mondo e l’evoluzione faticosa dell’umanità, ma a maturare la coscienza di una presunta superiorità degli occidentali e ad imporre una identità nazionale ai giovani italiani e non! Insomma, è proprio la visione identitaria e ideologizzata della storia che doveva essere modificata dal testo delle “I indicazioni”. Ma questo non è avvenuto. Inoltre, sempre in questo paragrafo, per mero errore materiale, gli ultimi sei righi di p. 54 e il primo di p. 55 (da “La storia, cioè la conoscenza e il giudizio […]” a “la volontà di acquisire un più ampio e organico protagonismo”) sono ripetuti dal rigo 19 al rigo 24 di p. 55; anche la frase “ha reso inevitabile […] la dimensione politica” (p. 54, righi 45-46) è ripetuta identica a p. 55, righi 12-13”
L’altra preoccupazione riguarda “una conseguenza di alcune delle scelte della Commissione autrice della bozza, ovvero: nel momento in cui si conservasse questa elencazione così particolareggiata dei contenuti come per la disciplina “Storia” si verificherebbe non solo il ritorno ai “programmi” – come sottolineato dal CSPI –, che sono in contraddizione con l’autonomia scolastica e che ledono anche la libertà e l’autonomia dei docenti, ma si imporrebbe una sorta di “Manuale unico di Storia”, con contenuti indicati dal MIM e con un’impostazione “identitaria” dell’insegnamento della disciplina voluta dal Ministero. Insomma, anche le Case editrici non sarebbero libere di proporre un proprio libro, i libri sarebbero fondamentalmente gli stessi, in serie, cambierebbe solo la Casa editrice e i curatori. Anche la soluzione di inserire in un box in appendice i contenuti non sarebbe una soluzione risolutiva al rischio di imporre, anche solo indirettamente, una sorta di “Manuale unico di Storia”. Insomma, il MIM comunicherebbe attraverso il suo Decreto alle Istituzioni scolastiche esattamente quali contenuti inserire nel “curricolo”, ma anche con quali finalità, e imporrebbe anche alle Case editrici la struttura e i contenuti dei propri testi. Si sposa in tal modo una “pedagogia del modello”, che vorrebbe imporre un’idea di cittadino, pedagogia ormai superata sin dai “Programmi” del 1985. Si può considerare valida questa scelta? Ci chiediamo. Anche questo ci preoccupa non poco”