di Virgilio Iandiorio
Ci sono parole di amici e conoscenti che restano indelebili nella mia memoria, anche quando queste persone non ci sono più.
Mons Nicola Gambino, il parroco archeologo morto venticinque anni fa, mi ripeteva spesso che se volevo considerare un libro di un certo valore, e il suo riferimento era soprattutto ai libri di storia, dovevo aspettare la notte dopo la lettura di esso: se non mi lasciava dormire tranquillamente sonni beati, voleva dire che era un buon libro. Quel libro tii faceva pensare, non ti faceva dormire.
L’amico Gennaro Passaro, ricercatore e storico dei più appassionati, direttore della rivista Civiltà Altirpina, anche lui scomparso da non molto tempo, mi diceva che un’inesattezza in un racconto storico è come una calunnia, che si trasmette facilmente e perdura nella mentalità della gente, ma che ha bisogno di molto tempo per essere corretta.
Passando dalla storia ala politica, ricordo spesso quello che diceva l’on. Ciriaco De Mita: quando vedeva intorno a sé l’unanimità, si preoccupava. Perché questa unanimità di vedute dignificava che stava dicendo delle cose troppo scontate e ovvie, oppure quelli che gli erano vicino fingevano di essere d’accordo per calcolo personale e non per condivisione di un progetto.
Come non ripensare a queste acute riflessioni, quando intorno a noi sembra che l’unanimità su scottanti temi d’attualità, esempio la guerra in Medio Oriente, abbia raggiunto una unanimità di valutazioni sulle responsabilità talmente radicata in tutti i ceti e in tutte le nazioni da fare ammutolire chi avesse qualche conato di dissidenza. E perciò segue la massa, o per acquiescenza o per timore di linciaggio o per autocensura delle proprie idee.