di Virgilio Iandiorio
Caro amico ti scrivo
Perché scrivere se poi nessuno ti legge? O, se volete, si può scrivere per un lettore che non c’è? Forse sarebbe meglio dire che, in moltissimi casi, siamo scaduti nel superfluo e nel superficiale.
Malgrado si scriva troppo non solo sulla carta stampata, ma tantissimo sul computer, si legge, e capisce, sempre meno.
Un mio amico mi raccontò di quando rimasto in panne con la sua macchina, vide arrivare un suo conoscente, meccanico di professione. Esclamò: “ Oh, epifania soterica!”. Il tizio rimase perplesso, quasi offeso. Perché aveva dato all’espressione, epifania soterica, invece che il suo significato vero, cioè apparizione salvifica, quello di Befana.
Al contrario di come erano soliti dire gli anziani del mio paese, quando intervenendo in discussioni in famiglia, solevano esclamare:” Scusate, le parole di un fesso”. Era la dichiarazione, non di scempiaggine, ma di consapevolezza. Perché quel “fesso” voleva dire semplicemente, uno che non ha dalla sua parte titoli professionali, ma solo la logica del buon senso.
Scrivere è una delle cose più individuali nella vita degli uomini. E a tutti viene voglia di affidare alla penna o al monitor qualcosa di sé. Ma ciò che scriviamo è molto più importante di come lo scriviamo? O le due cose sono correlate?
In genere chi scrive per il pubblico, è convinto che chi leggerà conosca per filo e per segno le sue parole scritte. Le cose, però, non stanno così. Molto spesso il lettore finge di capire per non sembrare persona poco istruita, per non dire ignorante.
Quanto è bello ascoltare alla tv quelle trasmissioni culturali (e qui c’è solo l’imbarazzo della scelta) in cui gli interlocutori parlano per sé stessi e con sé stessi. Come quel professore miope della novella di Pirandello, che convinto di parlare agli alunni tiene, invece, lezione ai loro cappotti lasciati sui banchi.


