di Chiara Baldassarre
Montefalcione sulle tracce di Lucrezia, la nobildonna che riscattò i suoi possedimenti e fondò il monastero di Santa Maria del Loreto. Un convegno come primo passo per un’indagine storica. Fortemente voluta dall’assessore alla Cultura Emanuela Pericolo, l’iniziativa – che si è tenuta l’altro ieri nel chiostro del monastero di Montefalcione – ha avuto per protagonisti due studiosi: Fausto Baldassarre (storico e saggista) e Maria Anna Martignetti (architetto ed esperta di storia dell’arte), che sono stati introdotti del vicesindaco Martina De Vito e moderati dal giornalista Antonio Emanuele Piedimonte.
L’incontro ha permesso di aprire una finestra sul Rinascimento in Campania e di riunire i non molti indizi sin qui raccolti sulla figura della baronessa Lucrezia, ultima esponente del suo casato, la famiglia Montefalcione (di origini normanne), per ben cinque secoli alla guida dell’omonimo paese. La scarsezza delle fonti, infatti, ha reso sino ad oggi difficoltoso il lavoro degli storici. Di Lucrezia – che i documenti talvolta indicano come “Vannella” – si è potuto comunque ricostruire un profilo, così come, grazie al magnifico monumento funebre conservato nella chiesa di Santa Maria del Loreto, conosciamo il suo volto. Quello che emerge è il quadro di una donna che nonostante le difficoltà, sia personali sia del periodo, seppe distinguersi conciliando la gestione del potere politico, il mecenatismo e la spiritualità.
Grazie alle attente ricerche degli studiosi sappiamo che Lucrezia – figlia di Luigi di Montefalcione, giustiziere del Principato superiore, e di Diana Caracciolo – si ritroverà ad affrontare una gravissima crisi quando le proprietà della famiglia verranno confiscate perché il padre, come molti altri baroni campani, si era ribellato all’occupazione spagnola e per questo era stato incarcerato.
Dopo la morte del genitore (pare avvenuta proprio in prigione) la giovane si battè per riavere le sue terre dimostrando determinazione e abilità politica, e nel 1528 riuscì a riscattarle pur costretta a versare 400 scudi d’oro.
Il matrimonio con il rampollo di una importante famiglia napoletana, Giovanni Antonio Poderico, rafforzò la posizione di entrambi i casati e ne favorì l’espansione culturale specie in ambito artistico e architettonico. Dopo la morte del marito Lucrezia lasciò un segno nella storia dell’arte in Irpinia: con l’aiuto dei suoi due figli Antonio e Ottavio, commissionò opere di grande rilievo come la chiesa di San Giovanni (1531), la Cappella del Crocifisso nel santuario di Montevergine, l’ampliamento della chiesa Madre (1555) e, nel 1577, la fondazione del monastero di Santa Maria di Loreto (considerato uno dei più belli dopo quello dell’Abbazia). Alla sua scomparsa, poi, i due figli le dedicarono un monumento funebre di grande pregio artistico, attribuito alla scuola di Giovanni da Nola o Annibale Caccavello, che è visibile nella chiesa, a tutt’oggi l’unica immagine conosciuta del volto di Lucrezia.
«Se non c’è memoria non c’è futuro», ha spiegato il professor Baldassarre nel corso del suo intervento, ricordando che sulla storia della nobildonna – della quale «non si parla mai» – c’è carenza di fonti e di studi. L’architetto Martignetti, dal canto suo, ha fatto cenno al contesto culturale dell’epoca: «Non sono molte le figure femminili che emergono dalle pagine del Rinascimento meridionale, donne capaci di lasciare un segno in un tempo per loro ostico: Lucrezia è sicuramente una di queste». «La storia non è solo lo studio del passato ma una spiegazione del presente e un’anticipazione del futuro», ha infine chiosato Piedimonte.
Tutti gli interventi si sono conclusi con un invito-appello a ricordare la figura della nobildonna montefalcionese, con iniziative ad hoc e anche nella toponomastica.