Di Gianni Festa
C’ è un cancro che lentamente, ma inesorabilmente, sta ammazzando la nostra realtà: la pretesa di impunità. Ne eravamo immuni fino ad ora, anche se in passato modesti esempi di impunità non sono mancati relativamente ai comportamenti politici. Era accaduto infatti che un sistema politico consolidato abusasse nella gestione del potere, ricorrendo alla discriminazione o alla mortificazione dei soggetti più deboli. Per quanto situazioni del genere siano da condannare, il loro verificarsi, però, non aveva finora prodotto danni paragonabili a quelli di oggi. E questo a causa dei comportamenti di alcuni soggetti in campo, nelle Istituzioni e nell’economia, che agiscono in disprezzo della legalità e del buon vivere, contro il bene comune. Fino a qualche tempo fa la questione morale era regolata dal buon agire delle Istituzioni che, salvo sporadici casi, svolgevano un compito di controllo degli interessi e quando questi non venivano rispettati si agiva con gli strumenti disponibili per riaffermare gli ambiti della legalità. L’amministratore, ad esempio, che abusava (e abusa) maldestramente del potere veniva inseguito da provvedimenti sanzionatori che consentivano il rientro nella legalità.
Oggi il sistema corruttivo si è talmente raffinato che difficilmente si riesce a raggiungere risultati positivi. In realtà, quel filtro della buona politica dei partiti si è liquefatto: i partiti oggi più che rispondere ai bisogni delle comunità sono diventati, in generale, elementi che favoriscono la corruzione o, come avviene in molti casi, sono essi stessi protagonisti del malaffare. Andando avanti in questo ragionamento, la riflessione non può che continuare se non denunciando il persistere, in molti casi, di una condizione di complicità tra i vari organismi che hanno dato vita ad un sistema infetto. E poiché di fronte ad una emergenza di ripristino della legalità occorre che l’informazione sia foriera di impegno per ripristinare la legalità violata, credo che al chiacchiericcio, spesso pettegolo, si debba sostituire il potere della denuncia di ciò che non va. Operazione, a dire il vero, che questa testata porta avanti da tempo con ostinazione, con l’obiettivo di cacciare i farisei fuori dal tempio. Seguendo questo percorso, tra i primi intrecci perversi c’è il rapporto che si crea tra la burocrazia amministrativa, il vertice degli enti e i rappresentanti politici ed economici. Un primo esempio riguarda la crescita urbanistica di un territorio: il “caso Avellino”. Un semplice giro per la città consente di verificare la devastazione del verde a favore di palazzoni i cui “credits” riportano quasi sempre gli stessi nomi. Tutto normale? Lo speriamo. Tuttavia chi controlla? Qualche anomalia è venuta alla ribalta nel caso dei condoni edilizi su cui indaga la magistratura. Altro esempio: si costruisce con il cemento. Chi ne controlla la produzione e la qualità? E soprattutto la pericolosità dei luoghi di produzione? Domande fatte, risposte mai giunte. E ancora. Il cemento si produce attraverso l’utilizzazione delle cave da cui si estrae la materia prima. Non sempre è così. In qualche caso le cave sono utilizzate anche come deposito di materiale tossico o altro? Quali sono i controlli effettuati?
Ci sono responsabilità delle conferenze di servizio per la concessione dell’esercizio di sfruttamento? E la Regione come esercita la sua funzione di controllo? Anche su questo le nostre denunce sono cadute nel vuoto. Potremmo continuare non solo sugli scandali edilizi e ciò che ad essi sono collegati, sulla gestione dei supermercati che rappresentano un importante business nel campo del cibo o in altri settori che puzzano di bruciato, nei quali la complicità del malaffare agisce senza gli opportuni controlli.
Non v’è dubbio che l’illegalità diffusa genera potere e il potere si trasforma in consenso elettorale. Il circolo vizioso produce impunità che è sempre più crescente, anche per l’indifferenza della maggior parte delle comunità. Non solo: anche perché mancano gli strumenti per combatterla. Né è utile la stanca lamentazione di chi, senza proporre alternative credibili, si affida ad un pessimismo cosmico che genera solo confusione. La riflessione sarebbe incompleta se non si desse atto all’impegno della magistratura che, con i pochi mezzi disponibili, è riuscita ad indagare, dimostrando quanto fosse inquinato l’agire di alcuni amministratori comunali. Certo, tra non poche difficoltà, spesso a causa di un conflitto tra gli stessi organismi della magistratura. Anche questo si coglie nella vicenda “Dolce vita” che si è consumata nel Comune del capoluogo, dove finalmente il commissario prefettizio ha deciso di costituirsi parte civile nella difesa del cittadino. Un altro esempio di confusione istituzionale, di conflitto, riguarda chi garantisce il governo del territorio e chi ne impedisce di fatto il ripristino della legalità.
Qui si entra nel campo minato della presenza sul territorio di clan della camorra. Il fatto. La Commissione antimafia, nata per combattere i poteri criminali, attraverso proprie indagini, nella sua ultima relazione presentata al Parlamento ha rilevato che in Irpinia operano clan attraverso imprese interne. Contro queste sono state emesse puntuali interdittive antimafia. Accade che i provvedimenti conseguenti emanati dalla Prefettura di Avellino nei confronti delle aziende compromesse sono stati contestati dai tribunali amministrativi, non nel merito, ma per l’incompletezza della documentazione presentata. Così la Prefettura è stata bloccata nella sua opera di pulizia anticamorra. Già: complicità, conflitti, impunità sono la radice del male nell’inquinamento ambientale. Lo ha ben capito il procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri. Questo ulteriore conflitto tra Istituzioni ci dice quanto e come sia difficile proteggere il territorio dalle incursioni malavitose.
È evidente quanto impari sia la lotta tra Stato e attività illegali. La camorra e gli altri poteri malavitosi dispongono di strumenti sofisticati per esercitare le loro attività illegali, mentre la struttura sociale esistente nella pubblica amministrazione è rimasta ferma quasi all’Ottocento. Il divario favorisce l’occupazione del territorio da parte dei clan, sollecitati anche dall’assenza di una politica del rigore. Rispetto a questo stato di cose diventa sempre più difficile difendere le comunità dagli assalti dei clan organizzati. Essi fanno leva anche sull’indifferenza di chi, per timore o per altro, gira lo sguardo dall’altra parte. Forse, e senza forse, è da qui che occorrerebbe ripartire per combattere il malaffare e l’impunità: dal cittadino arbitro tra il male prodotto dall’illegalità diffusa e chi, invece, riscoprendo il valore della convivenza civile, si prodiga per il bene comune. A condizione però che Istituzioni pubbliche, scuola, chiesa, famiglie, in concerto tra loro, comincino a creare le condizioni per un ambiente diverso e credibile.