di Virgilio Iandiorio
Giuseppe, il barbiere del mio paese, quando sentiva nella sua bottega, che era un luogo di intrattenimento per gli anziani soprattutto nei mesi invernali, le opinioni più strampalate sulle questioni nazionali del momento, era solito ripetere:” Per dare ascolto a quillo e a quisto/ stamo ‘n croce come a Cristo”.
Oggi fa molto discutere “la legge sul fine vita”: si deve fare o non si deve fare, deve essere votata all’unanimità o deve essere il risultato del mettere insieme tutti i “cocci”, si fa per dire, di un vaso andato in frantumi? E se lasciassimo a ognuno di agire ad libitum, come i ricettari di cucina consigliano l’aggiunta di sale alle pietanze?
Ma il problema non è della nostra epoca, così strana e voltagabbana, perché esso si è posto in passato, anche in quello molto remoto. Ho riletto la lettera che Plinio il Giovane, vissuto all’incirca duemila anni fa, scrive al suo amico Celestio Tirone (Epistularum Liber I, 12, UTET 1996):
“E’ morto Corellio Rufo e per di più di sua libera scelta, peculiarità che inacerbisce il mio dolore. E’ infatti il genere di morte più lacrimevole quello che si presenta come non proveniente né dalla natura né dal destino. Coloro che si spengono di malattia lasciano pur sempre il grande conforto che nasce dalla stessa inevitabilità, mentre quelli che se ne vanno per una morte da loro chiamata procurano un dolore insanabile, perché si crede che sarebbero potuti ancora vivere a lungo. Corellio fu certo indotto a questa decisione da un motivo estremamente grave -che per i sapienti equivale alla necessità-, sebbene avesse moltissime ragioni di vivere, cioè una coscienza integerrima, una riputazione incontaminata, un prestigio grandissimo ed inoltre una figlia, una moglie, un nipote, delle sorelle e, in mezzo a tanti parenti, dei veri amici. Ma era tormentato da una malattia così lunga e così straziante, che questi così forti allettamenti alla vita furono vinti dalle ragioni della morte”.
Corellio aveva compiuto 67 anni “ età che è abbastanza lunga anche per persone molto robuste”. A 32 anni fu colpito dalla podagra, malattia che si aggravò con la vecchiaia; e il dolore che si manifestava con fitte atroci si era esteso a tutte le parti del corpo.
Quando Plinio andò a trovarlo, mentre stava a letto nella sua villa alla periferia di Roma: “Volse gli occhi in giro e< Perché, disse, credi tu che io sopporti così a lungo queste sofferenze così terribili? Il motivo non può essere che uno: per sopravvivere almeno un giorno a questo spregevole brigante -la morte->.
A dargli delle forze fisiche uguali a quelle della sua tempra morale, avrebbe egli stesso tradotto in realtà quello che bramava. Tuttavia la divinità appagò il suo ardente desiderio, soddisfatto, egli, vedendo che ormai poteva morire sereno e libero, spezzò tutti gli altri vincoli che lo legavano alla vita, che erano molti ma meno tenaci.
Aveva già passato due, tre, quattro giorni senza prendere cibo. Sua moglie Ispulla mandò da me il comune amico C. Geminio a portarmi una funestissima notizia: Corellio aveva irremovibilmente deliberato di morire, non si lasciava piegare né dalle sue preghiere né da quelle della figlia, rimanevo solo io che potessi richiamarlo alla vita. Accorsi. Ero già arrivato nei dintorni, quando incontro Giulio Attico che era stato mandato sempre da Ispulla, per comunicarmi che ormai nemmeno io non avrei ottenuto più nulla, tanta era l’ostinazione nella quale si era progressivamente irrigidito.
Al medico che gli presentava del cibo aveva detto testualmente:< Ormai ho pronunciato il verdetto>, parola che lasciò nell’animo mio un’ammirazione uguale al rimpianto”.