di Anna Bembo
La violenza non nasce mai dal nulla. Si insinua nelle parole, cresce nei silenzi, trova terreno fertile nei luoghi in cui dovremmo sentirci più liberi: le chat, i social network, i forum. Oggi i dati ci dicono che non è più un’ombra isolata: nel 2019 il 18% degli studenti italiani dichiarava di aver subito episodi di cyberbullismo; nel 2021, complice la pandemia, la percentuale era già salita al 23%. Nel 2023 si è arrivati al 29% e nel 2024 le segnalazioni a Telefono Azzurro e Terre des Hommes sono aumentate del 40%. Oggi quasi sette ragazzi su dieci tra gli 11 e i 19 anni hanno vissuto almeno un episodio di violenza online e uno su cinque lo subisce con frequenza.
Dietro questi numeri, però, c’è qualcosa di più profondo: la progressiva assuefazione a un linguaggio che perde peso e responsabilità. Sui social si discute, si informa, si condividono momenti di vita, ma troppo spesso questi stessi spazi diventano arene di insulti gratuiti. La superficialità con cui vengono scritti i commenti lascia credere che non abbiano conseguenze, eppure basta una parola per scavare solchi nell’animo di chi la riceve. Da un insulto nasce un senso di inadeguatezza, dall’isolamento la depressione, dalla rabbia la violenza. È una catena che sembra banale all’inizio, ma che può condurre a gesti irreparabili.
Questo è il cuore della miniserie britannica Adolescence (2025), che ha fatto discutere critica e pubblico per la forza con cui racconta l’intreccio tra bullismo, cyberbullismo e la diffusione delle sottoculture tossiche della manosfera e degli incel (involuntary celibate, celibe involontario). La serie, premiata agli Emmy lo scorso 15 settembre come miglior miniserie, non si limita a mostrare un crimine: ci porta dentro la mente e le fragilità di un ragazzo e di un’intera generazione.
La storia si apre con l’arresto del tredicenne Jamie, accusato dell’omicidio della compagna di classe Katie Leonard, trovata pugnalata la sera precedente. Dietro l’atto estremo si nasconde un intreccio di bullismo e umiliazioni: Katie, già segnata dalla diffusione non consensuale di una sua foto, aveva respinto Jamie con durezza e lo aveva pubblicamente etichettato come incel: una subcultura online secondo cui il fatto di non avere una relazione sentimentale o sessuale è dovuta dal non essere attraenti, secondo alcuni criteri oggettivi e indipendenti dalla loro volontà. Quel rifiuto, insieme all’emarginazione dai coetanei e alla convinzione di non valere nulla, diventa per Jamie la miccia che lo trascina verso la violenza.
Il ritratto psicologico che emerge dalle sedute con la psicologa, incaricata di seguirlo prima del processo, è inquietante. Jamie rivela la sua distorsione: considera i compagni peggiori di lui perché, a suo dire, avrebbero violentato Katie, mentre lui “si è limitato” a colpirla. Un ragionamento che annulla la responsabilità personale, minimizza l’omicidio e trasferisce la colpa sulla vittima. È il riflesso della stessa logica che abita tanti spazi digitali: il pensiero che la violenza sia tollerabile, purché peggiore quella altrui.
Adolescence non è solo una serie crime, ma un monito. Mostra come dietro a un insulto lasciato sotto una foto o a una risata di scherno possa nascondersi una forza distruttiva capace di scivolare dal virtuale al reale. È una denuncia potente che ci ricorda quanto sia fragile il confine tra le parole e i gesti, tra l’odio scritto e la violenza agita.
La responsabilità è collettiva: genitori, scuole, insegnanti, comunità. Ogni parola pesa, ogni commento può lasciare cicatrici. Non si tratta solo di educare i giovani all’uso consapevole della rete, ma di restituire valore alle parole. Perché il futuro si costruisce lì, nello spazio fragile e potentissimo della comunicazione quotidiana. E se non lo facciamo adesso, quando sarà troppo tardi, non resteranno che i silenzi a raccontare ciò che non abbiamo voluto vedere.