di Anna Bembo
Al Teatro Carlo Gesualdo è andato in scena “Frida Opera Musical”, un’esperienza totale e travolgente che non si limita a raccontare la vita di un’artista, ma la incarna. Un’opera che non imita la vita, ma è vita. Perché come Frida Kahlo, anche lo spettacolo vive di contrasti: luce e ombra, immobilità e danza, colore e nero, amore e ferita. Ed è proprio in questo dialogo costante tra opposti che nasce la bellezza. Non c’è gioia senza dolore, né luce senza buio, né esistenza senza l’abisso della morte. Questo non è solo il messaggio dell’artista Frida Kahlo: è l’anima stessa dello spettacolo.
La catarsi aristotelica qui non è un concetto astratto, ma un’esperienza reale. Si attraversa la sofferenza per uscirne purificati. Si soffre, sì — perché la vita di Frida non è edulcorata — ma quando il sipario cala, ciò che resta è un sollievo inatteso, infantile, quasi sacro. La ferita diventa rinascita. Il dolore si sublima in luce. Due ore e mezza che scorrono senza percezione del tempo: è un’opera che non semplicemente si guarda, ma si vive.
Le due ore e mezza scorrono come un respiro profondo. Si ride, ci si commuove, ci si riconosce. La vita di Frida è un’altalena emotiva che rispecchia la nostra. Ogni scena è un quadro. Ogni musica è un battito. Ogni cambio di luce aggiunge un livello interiore. Eppure lo spettacolo resta intimo, umano, mai “costruito”. È vivo.
La potenza visiva è impressionante e il ritmo è da kolossal internazionale: scenografie mobili rapidissime, proiezioni digitali di altissimo livello, costumi che sembrano usciti da un quadro, tre musicisti in scena a suonare dal vivo come cuore pulsante della narrazione. Tutto grida Messico, ma un Messico interiore, rituale, ancestrale. La vita privata e quella storica si intrecciano: la rivoluzione messicana, la Parigi post Belle Epoque, i ruggenti anni Venti americani, Lev Trotsky, Diego Rivera — anche lui restituito nella sua grandezza artistica, non ridotto alla caricatura del traditore.
Federica Butera è una Frida magnetica e potentissima: fisicamente minuta, ma enorme nell’energia scenica. Damiano Spilateri, chiamato a sostituire Andrea Ortis, regista dell’opera, lo fa con una presenza impeccabile. Ma c’è un’apparizione che resta incisa per sempre: Drusilla Foer nel ruolo della Morte. Sadica, sarcastica, ironica e insieme inspiegabilmente materna. Non minacciosa, ma necessaria. Quasi desiderabile. Una morte che non spaventa, ma illumina.
E qui il legame è perfetto: come disse Drusilla nel suo memorabile monologo a Sanremo 2022, l’impresa più difficile e più sacra è abbracciare la propria unicità ma soprattutto riuscire ad offrirla al mondo senza compromessi. È ciò che hanno fatto sia lei, sia Frida. Non recitano se stesse: sono se stesse. E questo spettacolo intero ha quella stessa verità.
Il merito di una visione così profonda è anche e soprattutto del regista Ortis, che in conferenza stampa ha dichiarato: «Molti vogliono il pan bauletto, comune e rapido. Io preferisco il pane dei forni.» Ed è esattamente ciò che consegna al pubblico: un’opera d’arte che nutre davvero.
Tutto, in “Frida”, tende alla fusione: tra arte e vita, tra rappresentazione ed esistenza. Non si assiste alla sua storia: la si attraversa. Non si è spettatori: si è coinvolti, trafitti, restituiti. Frida e lo spettacolo coincidono nella loro natura contraddittoria. Lo spettacolo è vivo — al punto che alla fine si ha l’istinto di premere replay, di restare dentro quel mondo. Un kolossal emozionale che non mostra la vita: la genera.
E ora la nota amara, che non riguarda l’arte ma noi.
Uno spettacolo di tale livello — che ora toccherà solo Milano, Roma, Firenze e Torino — meritava un’accoglienza diversa. Il Gesualdo non era pieno. Mentre arrivavano spettatori da Puglia e Sicilia, molti avellinesi non hanno colto la portata irripetibile di questo evento. Almeno i presenti hanno goduto dello spettacolo e lo hanno accolto con grande entusiasmo con una standing ovation durata oltre i cinque minuti. Sessanta professionisti hanno vissuto qui per un mese, portando lavoro, arte, bellezza, prestigio: un patrimonio culturale ed economico di cui forse non ci si rende conto. Eppure la compagnia ha parlato con gratitudine della città, immaginandola persino come possibile residenza teatrale stabile.
Stasera c’è l’ultima replica. È l’ultima occasione. Uno spettacolo destinato a spopolare sulla scena internazionale, e noi potremmo essere tra i primi a poter dire: «Io c’ero.»




