Per una storica, antichissima consuetudine, i rioni periferici vengono attenzionati dai partiti e dai candidati solo in occasione dei turni elettorali. Ci si arriva con il sorriso sulle labbra, con uno straordinario carico di promesse e, con la faccia tosta di denunciare anche un insopportabile abbandono. Se in un tempo non molto lontano le persone dei quartieri popolari si sentivano gratificate dalle visite dei candidati con il codazzo, oggi, invece, è la contestazione il modo di accogliere coloro che intendono soltanto carpire il consenso. Questo comportamento, il Corriere lo sta registrando di frequente nell’inchiesta in corso, un viaggio nella città “satellizzata”, ovvero che isola sempre di più il centro cittadino emarginando quei pezzi di Avellino nei quali i servizi sono sempre più scadenti o addirittura non esistono. Tuttavia, nonostante le contestazioni, i “passeggiatori elettorali” non demordono e in questi giorni di vigilia del voto si ripresentano per catturare il consenso perché sono proprio le periferie i grandi serbatoi di voti che possono fare la differenza per il risultato finale. Se così è per le periferie, non altrettanto avviene per l’emergenza “zone interne”. L’argomento è trasversale in tutte le forze politiche. Non c’è candidato o partito che nel proprio programma (quando c’è) non dedichi poche righe all’annoso problema dello spopolamento dei paesi interni. Alcuni lo fanno ignorando il problema e solo perché sono raggiunti dalle imprecazioni dei familiari di giovani costretti ad emigrare per mancanza di lavoro. In realtà, non c’è report che non offra le cifre dell’emigrazione intellettuale che comporta non solo lo strappo con la propria radice, ma anche lo smembramento della composizione familiare. Senza il benché minimo pudore, i menestrelli delle liste si avventurano nel fare promesse, dimenticando che se i paesi dell’interno si spopolano è per responsabilità di una classe dirigente politica e amministrativa che non è in grado, al di là delle promesse, di elaborare un piano per ripopolare questi paesi agonizzanti. Che lo sono diventati perché nei Comuni interni non è possibile un adeguato vivere sociale. Non ci sono sevizi minimi, scuole, trasporti, uffici postali, strade di comunicazione per favorire una logica comprensoriale e, soprattuto, non c’è lavoro, né l’impegno per perseguirlo. E’ vero, c’è il settore agricolo con tutte le sue diramazioni che evoca la grande tradizione della civiltà contadina, ma questo settore non supportato da uno straordinario impegno istituzionale è destinato a degradare sempre di più. A impedire la rinascita delle zone interne, d’altra parte, c’è un’arretratezza culturale imbarazzante di chi dovrebbe avere invece visioni progressive. Un esempio. Per mettere in moto un circuito virtuoso basterebbe ripopolare i borghi con l’accoglienza degli immigrati, molti dei quali hanno conseguito nei loro paesi una professione, un mestiere capace di riportare vita attiva nei borghi oggi spopolati. Non si può, perché la maggior parte degli amministratori preferisce l’inferno della desolazione, rispetto alla sfida della rinascita. E dunque silenzio in questa campagna elettorale sul come si può affrontare l’emergenza zone interne, ma non nel proclamare idee balzane, raccontate con balbettii riprovevoli. In realtà, per superare le emergenze servono una svolta culturale e una visione politica: occorrerebbe invertire la tendenza a implementare e supportare solo le aree fortemente urbanizzate e regolare meglio le esigenze di vivibilità con delocalizzazioni necessarie, ricollocando lo sviluppo nelle zone fragili. Ma tutto questo non porta voti.




