“La scrittura è un modo per sentire il dolore, è un modo per prendersi il dolore che altrimenti resterebbe intrappolato nel corpo a fermentare disagi o a costruire grandi malattie”. Scrive così Franco Arminio ne “La grazia della fragilità”, confermando un’intensità di scrittura capace sempre di raccontare ciò che troppo spesso è difficile affidare alle parole. Una raccolta, quella edita da Chiarelettere, in cui esistenza e scrittura sembrano fondersi, nella consapevolezza che la poesia riesce ad essere più autentica della vita stessa, dedicata a tutti quelli che provano a ingentilire il mondo quanto più il mondo è brutale. “Io mi sono votato – scrive Arminio – interamente alla poesia. L’ho usata per provare a intensificare la realtà, la realtà non ce la fa più, si è come sgonfiata e noi non le portiamo sangue e aria e questo produce una mestizia di tutte le cose che parlano, sembrano in salute solo bottiglie, le maniglie, gli armadi”. Costante il richiamo alla morte e alla sofferenza, con le quali non possiamo non fare i conti, se vogliamo comprendere il mistero della vita. Un richiamo evidente nel riferimento alla fragilità che compare nel titolo “Non ho mai messo la morte fuori della mia vita, le ho sempre fatto vedere quello che facevo, ho lasciato spazio a un albero, a un marciapiede, ho creduto più alla geografia che all’anima”. per scoprire che ciò che si salva è superare i confini “quando sappiamo di mela e di Dio”. A salvarci è l’imperfezione: “L’esistenza nella sua perfezione è perfettamente insensata, è solo l’errore, il residuo, l’equivoco che può dare un margine, un soffio nella tomba dell’essere. Perchè lo spazio di libertà, lo spazio imponderabile è affidato all’invisibile, prima della vita e dopo la vita, quando siamo qui finiamo presto in qualche buca e non se ne esce più”. Dunque non resta che “uno scisma involontario da noi stessi e dalle marcette che ci impone la materia in cui siamo impressi”.
Centrale il legame forte tra corpo e paesaggio che attraversa la sua poesia “L’attenzione per il corpo si estende all’attenzione per il paesaggio. Il mio corpo è il mio paesaggio e il mio paesaggio è il corpo”. Ogni sofferenza del corpo non può non riguardare anche il paesaggio “Il mio corpo lo vedo come un corpo di cui diffidare, un corpo debole, bruciato dall’ansia. Il mio paesaggio è una terra ventosa, senza alberi, una terra che ha grandi squarci di luce e di vuoto. Ho sempre sofferto per il mio corpo e il mio paese”. Per ribadire come la scrittura sia bisogno dell’anima e ancora di salvezza “Si è scrittori in tanti modi, io scrivo perchè quasi ogni giorno, ogni ora mi sento con le spalle al muro”. Per concludere “Sono un esiliato che scrive per cercare di tornare a una casa che non ha”. Costante il riferimento a sentimenti come ansia e paura diventati una costanza della propria esistenza, con i quali Arminio ha imparato a convivere, tanto da non esitare a parlare di una “fratellanza con la paura”: “Io e mia madre nella stessa ansia, mio padre furioso come un cavallo, E poi, poco alla volta, fuori casa, la scoperta amara di un paese dall’umore storto: nemico di tutti, dolce neppure nel sonno”. E dunque “Per andare avanti c’è solo questo da fare, abitare sull’orlo, l’orlo di noi stessi e l’orlo del mondo. Forse ognuno di noi è la somma di due periferie”. Poichè ci sono giorni “in cui si stringe il futuro, si annerisce” e arriva la notte del cuore. E il poeta ammette di non conoscere “la disgrazia di essere forti”
Non ha dubbi Arminio, il problema del nostro tempo è nelle coscienze essiccate, nei cuori rinsecchiti, nella purezza perduta mentre “Mi interessa tentare la vita, cercare il massimo di intensità. Voglio sentire la scapola sepolta, l’affanno della formica, il respiro del moribondo. Voglio sentire nel mio corpo un altro corpo, voglio sentire il respiro di tutto il mondo, non accontentarmi del rancio che passa la galera in cui ci siamo reclusi”. Un’intensità in cui è racchiusa la poesia “che è contenuta negli scandali estremi, nei paesaggi più misteriosi, nei passaggi in cui la vita è a un soffio dalla morte e non si allontana più da quel filo…”. Una raccolta che appare un flusso di coscienza, una riflessione sul mistero della vita di ciascun uomo “la cosa preziosa ti visita quando arriva il dolore. E’ il bene, è un Dio umile che sa del dente che ti vuole, della scivolata, della parola brutta che qualcuno ti ha detto senza farci caso. la cosa preziosa se ne va presto. Tienila al caldo dentro di te, accarezzala anche se ti fa male”. Un libro che si fa riflessione sul sacro, sempre più centrale nella produzione di Arminio “Lo chiamo sacro minore perchè non credo abbia a che fare con il sacro delle chiese. Io parto da qui: ogni cosa che ha un corpo ha anche un’anima. Se ci crediamo davvero, la nostra vita diventa meno solitaria, ci è sorella ogni presenza: la rana nello stagno e la fogna, il termosifone e l’armadio, la nuvola, il vento e la neve”. Una sacralità che è nella consapevolezza del dolore, da cui ci salva solo “dare e darsi un po’ di bene”, provare a lenire il dolore degli altri poichè “Sacra è la carità in un tempo in cui sembra perdita”.
Ecco perchè l’invito che lancia Arminio è quello di disertare gli schermi che ci danno l’illusione di essere iperconnessi ma non colmano le nostre solitudini “dire delle cose e poi scappare in un abbraccio, camminare in un bosco, andare a vedere un’alba, un tramonto…”Poichè “La vita digitale è un ronzio senza destino, è un volo che lascia a terra il cuore” E il paradosso è che il mondo reale è diventato un pezzo di quello digitale, l’intelligenza artificiale diventa ignoranza artificiale e in questo ronzio planetario si confondono guerre, crisi climatica e persino le nostre fragilità. Arminio denuncia con forza l’isolamento corale in un mondo che è diventato “un groviglio di mercati e mercanti”, in cui il vero esodo è quello di chi trasferisce in Rete, “La questione digitale è diventata una questione teologica: Dio è morto, ma ci ha lasciato il mouse, la tastiera, la password”. Accade così che la Rete racconti ciò che non avviene “Finiscono amori che non sono mai nati, formiamo associazioni che non associano niente, raccontiamo battaglie che non stiamo combattendo”. Naturale che ad essere congedati siano politica, letteratura e religione e che a dilagare sia un’epidemia di solitudine da cui scaturiscono uomini come Trump che “non sembra avere un partito, non sembra avere una famiglia”. Poichè la solitudine può avere ricadute anche sulla politica. Eppure, ci ricorda il poeta, non tutto è perduto “In Italia, specialmente nel Sud, l’epoca presente in fondo è meno sfinita che altrove. Qui c’è palpito, c’è ancora un’agonia, anche se è un’agonia ciarliera…Il centro non è quello che viene confezionato nei giornali e alla televisione e ora anche nella Rete. L’Italia non è stata tutta arata dall’irrealtà”.
Più che dalle parole bisogna ripartire dallo sguardo “Guardando, guardandoci, possiamo sentire che c’è una cura, c’è un’attenzione, che possiamo dare, che possiamo darci”. Dall’orrore della guerra a cui si può contrapporre la poesia, affidando ad essa il governo del mondo, ai volti dei bambini di Gaza che “guardiamo da turisti dell’orrore” al potere dell’amore, che fa sì che il nostro corpo non giri a vuoto, che è la questione principale da cui dipende ogni cosa, che è esso stesso eresia, che ha il suo cuore nella fantasia e nel lottare insieme. Ecco perchè “dobbiamo diventare noi stessi luoghi di cura, infermieri della nostra comunità. Non è una scelta di bontà, siamo obbligati ad essere generosi. Questo è il momento dei coraggiosi. Non è il tempo di quelli che descrivono la luce ma non la danno. Si dia inizio a una nuova stagione, la stagione di chi crede che alla fine dei nostri giorni rimane solo ciò che abbiamo dato”. Poichè non c’è altra strada che “federare le nostre ferite e i nostri entusiasmi, Combattere insieme e gioire insieme”. Ecco perchè Arminio si chiede se non abbia senso istituire l’ora di fragilità nelle scuole, in cui ciascuno racconti i propri affanni, perchè la vita privata non può essere separata dal lavoro e solo così è possibile costruire una pienezza provvisoria onorando le cose che stanno sotto il sole. E l’unica rivoluzione possibile “è portare la nostra vita da qualche parte, pensando però che già è bella”. E “Le lotte politiche devono rendere il mondo più giusto ma anche piu’ luminoso”. Per riscoprire la bellezza della vita “Si tratta solo di sentire un miracolo piccolo, è sempre più grande di come lo pensiamo. Siamo dentro una vicenda colossale in ogni attimo della nostra vita. Non c’è un solo momento che sia inutile, inerte, banale, è tutto un fiorire dell’enorme, dell’infinito”.



