di Virgilio Iandiorio
Mi intrattenevo spesso con due anziani compaesani, che da alcuni anni non ci sono più, perché avevano delle simpatiche trovate, ogni qualvolta si parlava di politica. Con le votazioni all’orizzonte sia per il rinnovo del parlamento sia dei consigli degli enti locali, essi dicevano che non andavano a “vuotare”. Per un eccesso di correttezza grammaticale essi ritenevano più corretto il sostantivo “vuoto”, forse perché ritenevano di uso dialettale ”voto” o perché volevano fare bella figura parlando forbito, come quelli che pubblicizzavano alcuni liquidi in bottiglia “con il vuoto a perdere”.
Il prossimo 23 novembre si andrà a votare per eleggere il presidente e il consiglio della regione Campania. Molti si chiedono: quanti elettori andranno a votare? Se il voto è un “vuoto” c’è da credere che saranno in molti a non voler fare un salto nel “vuoto”.
Il voto che diventa ”vuoto” non è nato con questa veste. Senza addentrarmi in analisi di natura sociologica, o psicanalitica, vorrei parlare del clima che si respirava più di mezzo secolo fa, quando nei nostri paesi la lotta elettorale era a dir poco accesa e alle votazioni si contavano sulle punta delle dita gli astenuti.
Ai comizi c’era un gran numero di cittadini e si potevano fare le previsioni su chi avrebbe vinto se la piazza era più o meno affollata. C’erano poi i galoppini elettorali, che andavano in giro a contattare gli elettori più incerti per portarli dalla loro parte.
Tutto un mondo si mobilitava per le elezioni, quelle comunali in particolare. Mi raccontarono di un galoppino che si era recato, quando già era notte, alla masseria di un compaesano per convincerlo a votare per la lista di cui faceva parte. Il padrone di casa nel sentire i cani abbaiare cominciò ad esplodere dei colpi di fucile. Il povero galoppino si distese in mezzo al campo di granturco e in quella posizione aspettò che facesse giorno.
Ma non finiva la lotta politica con la pubblicazione dei risultati. Mi hanno riferito di un gruppo di giovani, che, non ancora elettori perché non maggiorenni (allora si era elettori a 21 anni), andarono a cantare in corteo, come nei funerali, il “dies irae, dies illa” per la strada antistante la casa di un sostenitore tenace della lista sconfitta. La cosa non finì lì, ma arrivò in tribunale, dove i giovani cantori vennero assolti perché cantare il “dies illa” non era reato.
Erano altri tempi, altre storie, altre lotte politiche; ma proprio per il fervore che queste suscitavano gli elettori andavano a votare con entusiasmo anche se, talvolta, troppo partigiano. Oggi, manca quella voglia di partecipazione alle competizioni elettorali e tutto si riduce a schermaglie sui social. Gli elettori odierni si sentono quasi defraudati di una appassionata partecipazione. E i cortei, e le adunate oceaniche? Servono a demonizzare un personaggio, o un gruppo, o una nazione, su cui far ricadere tutte le colpe dei malanni intorno a noi.
Ecco perché hanno avuto ragione quei due miei compaesani nel definire “vuoto” il voto, perché è privo di passione. La politica da avanspettacolo, può fare sorridere, ma non ci invoglia a riflettere.



