di Mino Mastromarino
Ancora notizie dal Sud, e dalla Campania, sempre più infelice. Più che crisi delle aree interne, si tratta di una crudele coincidenza di fatti. Dal Corsera: il Mezzogiorno si sta svuotando e la Campania, dal 2014 ad oggi, ha perso più di 65 mila giovani laureati. In questo processo di svuotamento del Meridione, la Campania è la regione
che paga il prezzo più caro, facendo registrare il saldo migratorio interregionale di giovani laureati più alto d’Italia. Il fenomeno della fuga dei laureati dalla Campania è ormai strutturale a dimostrazione di un tessuto economico regionale, a partire dal mercato del lavoro, fragile e arretrato. La Campania è una regione dove i laureati o non trovano lavoro oppure, quando lo trovano, è mal pagato, precario e poco professionalizzante, con opportunità di carriera limitate.
Aggiungendo a questi dati quelli messi a disposizione dall’Eurostat si capisce come, nonostante i grandi intenti del Pnrr, il divario territoriale italiano è una voragine in cui rischia di essere inghiottito il futuro della Campania e del Mezzogiorno. Il tasso di occupazione della Campania è al 49,4%: il peggiore di tutte le 243 regioni prese in esame da Eurostat. Anche la Banca d’Italia conferma che il tessuto economico locale, nonostante il PNRR, i bonus e la Zes, mostra solo «deboli segnali positivi», giacchè la crescita è contenuta all’1% e la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese.
Per mera casualità è in corso la competizione per il rinnovo campano del Consiglio e della Presidenza regionali. I temi – come al solito – sono molto lontani dalle cupe statistiche . Verbosità, partorite dagli esperti in comunicazione dei comitati elettorali, che rimbalzano sulla triste quotidianità, nel generale quanto comprensibile disinteresse dell’opinione pubblica: sviluppo del territorio, incremento dell’occupazione, emergenza idrica, l’importanza di fare rete, raccordare il centro con le periferie, potenziamento della mobilità. E poi – ovviamente – promozione del turismo.
Rurale, enogastronomico, esperienziale, sostenibile. Insolente prodigalità di inglesismi: co-working, co-housing, network, digital divide. Insomma: il trionfo e la ripetitività di una lingua ‘scema’, dannosa e, soprattutto, irredenta e impunita pur dopo ogni voto. Da una parte, parole vuote e irrelate (ossia scelte verbali insopportabili come lo schwa, contro cui si è giustamente scagliato il linguista Massimo Arcangeli al quale si deve l’espressione di ‘lingua
scema’ ). Dall’altra, ma ad estrema distanza, la realtà. Secondo un cinico processo di avveramento
di convergenze che restano parallele.
Poveri noi che pensavamo i politici come degli ingegneri sociali, ossia coloro che si assumono volontariamente lo specifico compito di progettare e cambiare la società. Infatti, co-housing significa coabitare mentre co-working vuol dire collaborare. E quindi???! Viene da chiedere in maniera stizzita . Per non parlare poi del sintagma, molto amato dalla politica e dalla burocrazia di Bruxelles, di ‘albergo diffuso’. Dove di diffusa c’è solo la dabbenaggine di chi crede addirittura che, trasformando le case malmesse di un paesino sperduto in tante confortevoli residenze per improbabili avventori, si incentiva l’economia locale e si combatte lo spopolamento.
Forse si considerano i turisti, tutti, degli aspiranti quanto improbabili eremiti. Non è un caso, perciò, che, mai come in questa tornata elettorale, si percepisca una grande noia tra gli elettori campani, estenuati da dibattiti afasici, evidentemente e colpevolmente estranei ai problemi della vita reale.




