di Paolo Saggese
Nelle austere aule di un maniero medievale, tra i banchi lindi come nei racconti di bambino, ricordo di aver ascoltato una leggenda, che allora mi sembrava incredibile, che richiamava miti ancestrali della storia dell’uomo. Le suore narravano di un toro furioso, nero, che sbranava tutti coloro che entravano nel suo territorio, tra il fiume Fredane e il castello di Torella dei Lombardi, che nel mio immaginario letterario ho chiamato “il paese del castello turrito”.
Un giorno, un viandante, che veniva da Frigento, che si trova al lato opposto della Valle d’Ansanto, la valle cantata da Virgilio nell’Eneide, pregò la Madonna, promettendo che Le avrebbe dedicato una Chiesa, se lo avesse aiutato ad uccidere l’animale. Miracolosamente, l’anonimo forestiero riuscì ad avere la meglio sul toro sino ad allora invincibile e sciolse il voto, costruendo un Tempio dedicandolo a Santa Maria del Perillo (del Pericolo). Intorno a quella Chiesa e al castello sovrastante nacque il borgo irpino, che nella sua poetica semplicità conserva, nonostante le violenze del tempo e dei terremoti, l’antica fisionomia.
Dalla leggenda trasse origine il simbolo del paese, un toro nero con le pupille rosse e con le corna d’oro, come sancito dall’araldica ufficiale.
Come si può ben vedere, questa leggenda presenta analogie con il mito del Minotauro o ancora di più con quello del Toro maratonio, ucciso anch’esso da Teseo. Callimaco ha dato notorietà a quest’ultimo “racconto” attraverso un epillio, dal titolo “Ecale”, in cui descrive l’eroe, che, per scampare ad una tempesta, si ricoverò presso l’umile dimora di una vecchietta, Ecale, che lo accudì e lo rifocillò. Dopo aver soggiogato il toro, Teseo, ritornando da Ecale, la trovò morta, e per omaggiarla le dedicò il Tempio di Zeus Ecalio. L’analogia tra la leggenda di Torella e il racconto del poeta greco fu colta dalla figlia del Principe di Torella Giuseppe Caracciolo, la poetessa Giovanna, che scelse il nome di “Nosside Eccalia” per presentarsi nelle Accademie della Napoli arcadica del ‘600.
Può anche essere che sia stata la stessa Giovanna ad inventare la storia per trovare una paretimologia del nome “Torella”, che non deriva da toro, ma piuttosto significa “piccola torre” (dal latino medievale “Turrella”).
Questa digressione più o meno lunga mi è parsa una giusta introduzione al racconto di un episodio di “tauromachia” verificatasi secoli dopo, sul finire del novembre 2025, tra i tornanti, le salite e le discese vorticose dell’Ofantina, che lega l’Apulia “siticulosa” all’Irpinia verde e abbondante di acque. In quei luoghi, che furono dei Sanniti e poi dei briganti, ma che incantarono Orazio nei ricordi lontani dell’infanzia, tra le foreste di Aquilonia e del Vulture, tra i laghi di Monticchio, Venosa poetica e il Castello di Monteverde, che fu dei Grimaldi di Monaco, esiste ancora una natura, che appare incontaminata, scavata nei secoli dalla furia dell’Ofanto, che nasce proprio a Torella dei Lombardi e si riversa nella piana digradando con lentezza verso il mare.
Ma alle pendici di Monteverde il fiume è ancora scuro del verde dell’Irpinia e violento per le piene, che arrivano dagli Appennini.
In questo quadro bucolico e ameno, si può ancora assistere ad una tauromachia, perché tra quelle curve non è raro incontrare bovini e tori allo stato brado, che invadono la carreggiata e diventano ostacolo o pericolo anche per gli ignari autisti. È capitato che, il 26 novembre scorso, mentre rientrava dal lavoro in Puglia, uno di questi sventurati pendolari della vita abbia incontrato sulla sua strada, in una curva, di sera, nel pieno del nubifragio di quei giorni, un toro nero, non furioso, che, mimetizzandosi tra le ombre della notte, diveniva e divenne un pericolo reale per chiunque si fosse imbattuto in quell’ostacolo imprevisto e imprevedibile sulla strada di casa.
Un’auto distrutta, il conducente miracolosamente illeso, il toro ferito dall’impatto.
Quella sera stessa, il sindaco di Monteverde, il professore Antonio Vella, aveva avvistato nello stesso luogo tre tori, uno nero, che era stato da ostacolo al moderno “viandante”, e due bianchi, persi anch’essi poi nel cuore della notte. Aveva allertato i carabinieri, comprendendo il pericolo imminente rappresentato da quegli animali sulla carreggiata. Tutto avviene al bivio di Monteverde dell’Ofantina, ore 19.00 del 26 novembre dell’anno del Signore 2025.
Eppure, lo stesso sindaco, insieme al collega di Aquilonia, Antonio Caputo, aveva segnalato da settimane il pericolo di mandrie di bovini e cavalli allo stato brado che infestano le colline e le valli ai confini con la Puglia. Persino la televisione di Cairo, La7, ha dedicato qualche settimana fa una trasmissione al pascolo brado, che sta mettendo a rischio la vita e la tranquillità dei cittadini di quei paesi (“Aquilonia: il caso delle mucche ‘clandestine’ deportate dell’Irpinia”, del 13 novembre 2025). I sindaci hanno anche allertato il Prefetto, i Carabinieri, hanno invocato l’intervento dell’esercito, per catturare e portare i bovini in un luogo sicuro, una “Fattoria didattica” della Regione Campania. Ma il problema resta lì. Irrisolto.
Forse si aspetta che un anonimo viandante moderno, una signora, che torna a casa nel buio dell’Ofantina, un viaggiatore ignaro, possano perdere la vita per l’incuria o per la colpevole azione di un allevatore irresponsabile, se non dall’istinto criminale.
Quel “viandante”, che stava per perdere la vita, intorno alle 19.20 del 26 novembre 2025, all’altezza del bivio di Monteverde, non è il personaggio di una leggenda arcadica, non è il protagonista di un mito ellenistico, tanto meno il figlio di un re, che deve compiere delle imprese per ottenere il regno o la mano della sposa, ma è un uomo in carne ed ossa, che rientrava dal lavoro, in Puglia, e che cercava di raggiungere casa dopo una giornata di impegni e di fatica. Quel viandante ha un nome, è colui che scrive adesso queste note, infarcite di letteratura, che avrebbe potuto non riabbracciare i propri figli e la moglie, che avrebbe potuto vedere troncati sogni e speranze, passioni e ideali in una notte di inverno tra le bufere dell’allerta meteo e il non senso di una vita di pericoli. Su quella strada, già terribile, seppure poetica, per i tornanti, per il clima spesso imprevedibile ed estremo, per la presenza non infrequente di volpi, cinghiali, cani e lepri, per i continui tir carichi di balle e pomodori e le bisarche che roteano pencolanti per le salite e le discese, quasi minacciando di far crollare al suolo macchine e jeep un tempo degli Agnelli, su quella strada stazionano anche vacche e tori, che attentano inconsapevolmente alla vita di chiunque passi ignaro del pericolo.
Non compaiono neanche segnali, che indichino la presenza di animali vaganti sulla carreggiata.
Su quella parte di Ofantina, terra di nessuno tra le sei di sera e le sei del mattino, può succedere di tutto.
Aspettiamo il morto per gridare al cordoglio. O aspettiamo un Teseo, che faccia giustizia. O semplicemente le autorità, che ripristinino le regole, che catturino gli animali e li mettano in sicurezza.
All’ignaro viandante, che avrebbe potuto perdere la vita in modo insensato in una notte d’inverno come tante, qualcuno avrebbe potuto scrivere un epitaffio, forse meno amaro di quelli di Edgar Lee Masters, ma ugualmente privo di significato.
Qualcuno avrebbe potuto scrivere sulla sua lapide: “Pensò di vivere / servendo lo Stato / e il bene comune // Ma nell’impietrimento / del tempo presente / servire lo Stato / era talmente inutile / da meritare una morte / insulsa come questa”.
Se invece uno avesse avuto l’ispirazione di Edgar Lee Masters, avrebbe potuto scrivere questi versi tradotti da Fernanda Pivano:
George Gray
Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
una barca che anela al mare eppure lo teme.
O restando all’Italia, i versi di “Girovago” di Ungaretti: nonostante tutto, occorre riprendere il viaggio come dopo un naufragio un superstite lupo di mare, sperando di non finire stupidamente la vita.




