Nell’inverno che chiudeva il 1989 per le strade di Praga migliaia di manifestanti facevano tintinnare sopra le loro teste le chiavi di casa per dire che le porte alla libertà e all’autodeterminazione andavano aperte ma anche per dire a Mosca, “E’ il momento che torniate a casa”. Quel tintinnìo sarebbe passato alla storia come l’icòna della “Rivoluzione di velluto” che senza spargimento di sangue né vittime avrebbe liberato la allora Cecoslovacchia dal giogo sovietico. Eppure in quelle stesse strade ventuno anni prima l’Armata Rossa aveva duramente represso la Primavera guidata da Alexander Dubcek che pure sembrava a portata di mano. La possibilità di aprire nuovi cicli non dipende soltanto dal generoso protagonismo degli attori. Pensate al nostro Risorgimento nel quale Carlo Pisacane non riesce ad aver ragione di pochi contadini armati di forconi mentre Giuseppe Garibaldi e i suoi raccogliticci volontari quasi senza colpo ferire sbaragliano un esercito bene armato supportato da una delle Marine più efficienti d’Europa. Si vuol dire che la Storia, all’apparenza così ricca di porte girevoli, apre varchi decisivi soltanto da un certo momento in avanti dopo aver a lungo masticato e digerito se stessa. Chi coglie il tempo giusto per infilarsi, ha buone possibilità di scartare e indirizzare il corso degli eventi successivi. Chi calcola male è destinato prevalentemente a dar vita a resistibili tentativi velleitari che finiscono per allontanare i varchi che si stavano aprendo. Su questo doppio e parallelo binario si gioca anche la competizione elettorale per il comune di Avellino.
La precaria condizione della città che viene consegnata dopo i cinque anni di Paolo Foti sembrerebbe una ampia e sufficiente condizione per ritenere possibile lo scarto. A due mesi dal voto già non si contano i protagonisti che si candidano a guidare il cambiamento, insieme alla riffa delle liste, agli abbozzi di programma, alle priorità di sempre che ormai si passano tra loro col copia&incolla, alle ipotesi politicistiche e stravaganti di sante alleanze fino al candidato che dovrebbe farsi carico di svolgere il compito: un sindaco, dicono quasi tutti, che non sia espressione diretta dei partiti scelto in quella società civile che ci sta tanto in cagnesco.
Qualcuno finirà comunque per vincerle le elezioni. Resta da capire con quali conseguenze. L’approccio è al momento sostanzialmente utilitaristico. Gioca sulla diffusa ostilità che la città ha maturato nei confronti di un sindaco vittima a sua volta di una maggioranza imbelle e di un partito di riferimento divenuto una trafficata bottega. Basta per intestarsi il pronostico? La partita è molto più complicata. Sfugge il corto circuito più complessivo che nell’ultimo decennio in particolare per Avellino ha assunto connotati complessi che hanno il primo nodo nella perduta capacità della città di riconoscersi in se stessa. Un estraneamento che produce senza soluzione di continuità desideri e rimpianti, palingenesi e status quo, orgoglio e commiserazione. Una città in bilico a cui non basterà la normalità del tunnel quando verrà consegnato, l’attivazione dell’autostazione, partecipate e istituzioni culturali efficienti e trasparenti, politiche urbanistiche che salvino quel poco di colline risparmiato dalla silente ma efficacissima speculazione, senza la riconnessione sentimentale che consente ad una comunità di entrare con i tempi giusti nel varco che si apre. Se questo accade, lo spazio per ennesime e infruttuose avventure si restringe: far tintinnare le chiavi delle nostre case, può molto influire all’archiviazione di spartiti elettorali preconfezionati nei quali il presente è utilizzato come rivendicazione senza futuro del passato.
di Norberto Vitale edito dal Quotidiano del Sud