Tra una settimana il settantesimo anniversario del 18 aprile. Il voto per il primo Parlamento della Repubblica. Allora sulla scena i protagonisti sono i grandi partiti ideologici: DC e PCI. I leader: De Gasperi e Togliatti. Stravince la Democrazia Cristiana che per oltre 40 anni sarà il perno del sistema politico. Oggi l’Italia del 4 marzo ha fatto scelte altrettanto nette ma una maggioranza per il governo dalle urne non è venuta fuori. I nostri padri e i nostri nonni scelgono di ancorare il nostro paese alle democrazie dell’Europa Occidentale e agli Stati Uniti.
De Gasperi è lo statista che nell’epoca della guerra fredda deve ricostruire un paese devastato e lo fa muovendosi con equilibrio e serietà sulla scena mondiale mentre sul piano interno inaugura la politica delle alleanze con i partiti laici. Il PCI si colloca all’opposizione e ci starà per tutta la Prima Repubblica tranne la fase del compromesso storico tra Moro e Berlinguer. La situazione adesso è molto diversa. Apparentemente imparagonabile. Eppure alcune analogie ci sono. Il voto del 4 marzo così come quello del 18 aprile del ’48 è stato un voto di svolta. Hanno vinto movimenti e leader inediti.
Forze politiche che hanno costruito il loro consenso fuori dai “palazzi” della politica e adesso devono starci dentro e governare i processi. Così i cinque stelle che da quando sono nati hanno sempre rifiutato accordi o intese politiche ora si muovono in modo opposto, cercando sponde e confronti. Per cinque anni hanno stigmatizzato e a volte deriso chi discuteva o proponeva compromessi, celebre il no a Bersani dei capigruppo Lombardi e Crimi in diretta streaming. Adesso si accorgono che in democrazia è fondamentale confrontarsi sia quando si vince ma anche quando si perde. Parlare con gli altri non è un segno di debolezza ma di arricchimento. De Gasperi vince da solo le elezioni del ‘48 ma apre la DC ad altri partiti inventando la coalizione. Di Maio non ha vinto, il movimento cinque stelle ha preso il 32 per cento un’ottima percentuale ma insufficiente e allora ha aperto sia agli sconfitti (il PD) che all’altro vincitore, Salvini, forse il suo interlocutore privilegiato. Entrambi vogliono cambiare, imprimere una svolta per chiudere la lora fase antagonista e aprirne una nuova.
Dopo settant’anni i partiti figli di una storia politica sono diventati minoranza. Si è rotto un equilibrio consolidato e ci si affaccia su un palcoscenico nuovo. Come ha scritto Marco Damilano in Parlamento “non ci sono più i leghisti con il fazzoletto verde o i grillini con la borsa del computer a tracolla, ma le facce di un’Italia tutt’altro che sconosciuta. Volti familiari, individui casuali, quelli che incontri in un viaggio in treno in seconda classe, in una coda alle poste, soltanto più eleganti per la grande occasione di fare il deputato, gli stessi che si sono messi in fila per salutare Fabrizio Frizzi, tra lo stupore degli intellettuali.
Un’Italia normale e popolare senza apparenti passioni politiche”. E’ insomma il paese che è cambiato in questi anni. E’questo mutamento che hanno intercettato Salvini e Di Maio. Settant’anni fa c’era un’altra Italia. A De Gasperi e alla DC riuscì il miracolo che sembrava impossibile: rimettere in piedi una nazione non solo da un punto di vista economico ma anche dandogli credibilità internazionale. Un paese ferito venne velocemente ricucito e De Gasperi gli diede un’anima rimettendo in moto la democrazia perduta negli anni del fascismo. Oggi un’altra epoca si è chiusa. La politica intesa come stabilità, equilibrio, moderazione istituzionale, cultura di governo resta ma deve essere coniugata e affrontata da forze che partite come estreme sono attese da prove diverse.
di Andrea Covotta edito dal Quotidiano del Sud