I numerosi riscontri dei tanti amici che hanno avuto la pazienza di leggere la mia modesta riflessione sul Seminario di Todi del 2011, mi fanno avvertire il dovere di esplicitare ulteriormente qualche “appunto” contenuto sul mio quaderno di sintesi su quel seminario.
Anzitutto Todi fu un condiviso momento di riflessione sugli interrogativi e sulle sollecitazioni che quel momento politico e culturale del Paese di allora, interrogativi e sollecitazioni attualmente ancora presenti e drammaticamente urgenti a fronte dell’insensatezza delle scelte politiche e programmatiche del governo attuale. Uno degli snodi focali di quella riflessione fu la nitida distinzione tra Chiesa e comunità politica nel senso che si prendeva atto definitivamente che la fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti sociopolitici, perché storicamente il pluralismo dei cattolici ha sempre caratterizzato la vicenda politica italiana, anche nella stagione della cosidetta “unità politica dei cattolici” dentro e fuori la DC, quando, tale unità fu sempre relativa, dominante si, ma mai esaustiva all’interno dello spettro del cattolicesimo politico. Prova significativa di questo pluralismo fu il fallimento della cosidetta “linea Ruini” del 1995, quando si tentò di convogliare l’elettorato cattolico verso il Partito popolare di Mino Martinazzoli. Successivamente, nel prendere atto della non praticabilità di quella linea, il Presidente della CEI scelse la via dell’interlocuzione con le forze politiche, Governo e Parlamento. In realtà Todi riconobbe che l’azione del cardinale Ruini, più che mossa politica di potere, fu il tentativo, per via politica e delle leggi, di arginare la scristianizzazione della società italiana, traducendo la linea interventista di S. Giovanni Paolo II. Ma l’aspetto più caratterizzante di Todi 2011, fu la sfida per il Pd che non si rivelò un partito aperto e recettivo, capace di accogliere in positivo i nuovi fermenti dell’elettorato cattolico, anzi prevalse la miserevole paura di essere scavalcato sul piano dei contenuti e delle prospettive programmatiche. A tal proposito furono eloquenti le parole dell’allora neoministro Lorenzo Ornaghi, ex rettore dell’Università Cattolica: “questo Governo segna il risveglio dei cattolici in politica: non è più il momento delle deleghe, non le diamo più a nessuno”. In realtà fu riconosciuto che era finito il tempo in cui i cattolici si occupavano solo dei problemi biotici, recuperando la dinamicità politica di sfidare, generosamente, il Pd ad essere se stesso, all’altezza delle sue promesse e del suo stesso statuto ideale. Si auspicò un partito ispirato alla laicità positiva e non esclusiva, aperta la contributo delle religioni (al plurale) alla qualità etica della vita civile: un umanesimo forte, né clericale, né laicista, davvero plurale, strumento e non fine per coltivare il potere, comunque promotore del primato della politica sui poteri forti della finanza e dell’economia. La sfida riguardava anche i cattolici che militavano dentro il Pd – i cosidetti teodem – spesso visti come corpo separato in casa Pd solo perché portatori di progetti riguardanti l’integralità della persona e non gli interessi delle varie lobby. Anche nei confronti di questa presenza democratica a livello parlamentare fu usato strumentalmente il dispregiativo di “cattolico”, anche in direzione di personalità della società civile: Ermanno Olmi, con esemplare umiltà scrisse: “Passo alle cronache come regista cattolico, ma io mi definisco piuttosto un aspirante cristiano”. Quella di Todi, comunque, fu una sfida per guardare lontano, auspicando una classe dirigente totalmente diversa per evitare le dolorose e avvenute sconfitte.
di Gerardo Salvatore edito dal Quotidiano del Sud