Che i partiti fossero in crisi da tempo, che avessero perduto la loro credibilità e il radicamento sociale e che conseguentemente la politica non fosse in grado di rispondere alle esigenze della società e a risolvere i problemi della collettività, é noto da tempo e questo giornale non ne ha mai interrotto il racconto. Ma che la crisi avesse coinvolto anche le Istituzioni si stentava a credere. Invece siamo a questo punto.
I partiti non sono stati capaci di eleggere il Presidente della Repubblica e alla fine sono stati delegittimati dal Parlamento che ha cominciato a votare Mattarella fin dalle prime votazioni in un crescendo che ha finito per imporre ai leader la scelta di ripiegare sul vecchio Presidente, che pur aveva ripetutamente fatto presente di non gradire la rielezione. Alla fine è stato rieletto con 759 voti, poco meno di Pertini che è stato il presidente eletto con più voti. Mattarella ha accettato perché l’invito gli veniva da tutto il Paese, ed in lui è prevalso il senso dello Stato e del dovere. Ha vinto il Parlamento che ha delegittimato, di fatto, i partiti (il cui collasso è evidente) ed i loro leader, costringendoli ad una scelta che non avrebbero – salvo una parte del PD- mai voluto fare Coloro che hanno condotto le trattative ne escono con le ossa rotte e – come ha dovuto ammettere lo stesso Letta, segretario del PD- la politica è consapevole della sua debolezza, ne prende atto e deve cominciare a cambiare.
Analizzando, seppur sommariamente, il comportamento dei partiti e dei loro leader, ci rendiamo conto che la crisi, anche istituzionale, è gravissima e l’uscita- malgrado Mattarella e Draghi- sarà di difficile soluzione. Cominciamo dal centro destra che ha accumulato errori su errori. Prima la scelta, infelice ed indecente, dell’autocandidatura di Berlusconi, accettata malvolentieri dalla coalizione incapace di opporsi, che ha fatto perdere due o tre settimane di tempo. Poi la pretesa di Salvini che, invocando una presunta maggioranza di consensi nel Paese – pur non avendo i numeri in Parlamento- ha preteso di fare il King Maker e quindi di dirigere le operazioni bruciando nomi su nomi e mettendo in campo persino la seconda carica dello Stato- la Casellati- che è andata incontro ad una sonora sconfitta incautamente credendo di prendere i voti mancanti dal M5S. Salvini è tornato al Papeete dimostrandosi un leader incapace, un populista esibizionista e un segretario a termine, cioè fino a quando non verrà fuori uno che possa prendere il suo posto. La frattura con Giorgetti si è ulteriormente acuita assumendo toni non più trascurabili e i governatori perseguono ben altra politica. Di Berlusconi è inutile parlarne: F.I. è un partito in liquidazione e il suo padre padrone farebbe bene a seguire i consigli della famiglia e pensare alla salute. La Meloni è la sola che ne esce bene e i suoi consensi sono destinati ad aumentare.
Ma se Atene piange Spata non ride. Anche nel centro sinistra le negatività hanno prevalso sulle positività. La crisi che attanaglia il M5S è evidente: non è più un movimento e stenta a diventare un partito. Conte- che durante le trattative ha avuto un comportamento ambiguo- non lo controlla e Di Maio non ha approvato la scelta sulla Belloni e l’ammiccamento con Salvini, ed ha evidenziato la necessità d una riflessione politica interna, i cui risultati potrebbero potare addirittura ad una scissione. Quanto al Pd- partito dalle molte anime e correnti- con Letta ha condotto le operazioni con cautela e accortezza invitando la maggioranza che regge il governo ad un tavolo comune ed ha evitato di proporre nomi. Quanto a Renzi, che è apparso più defilato, è stato il primo a far cadere l’ipotesi Belloni e ha contribuito alla rielezione di Mattarella.
L’unica cosa positiva di tutta la questione Quirinale è la conservazione del binomio Mattarella Draghi nella speranza che ci possano portare fuori dalla crisi. E non è cosa da poco!
di Nino Lanzetta