Di Rosa Bianco
C’è un gesto originario che fonda ogni civiltà: raccontare. Prima ancora della storia, della legge, della politica, fu la narrazione a costruire l’umano. E ieri sera, nella cornice viva e simbolica della “Terrazza delle penne d’oro” alla Tenuta Ippocrate a Montefredane, quel gesto primordiale si è compiuto di nuovo. Con “Racconti dall’Irpinia” – Graus edizioni, Giuseppe Tecce non ha semplicemente presentato un libro: ha chiamato a raccolta una comunità intorno a un’idea profonda di identità, che non è mai slogan, ma sempre percorso interiore.
È stata proprio la presentazione del volume di Giuseppe Tecce a inaugurare “Libri nella Natura”, la rassegna da me ideata con il sostegno dell’Associazione Insieme per Avellino e per l’Irpinia, guidata dal dott. Pasquale Luca Nacca: un esordio gremito di pubblico attento, vigile, intensamente coinvolto, prova che l’anima dei luoghi, se interpellata con sincerità, genera ascolto. E anche appartenenza.
Tecce ci ha restituito dodici racconti che non sono semplici narrazioni, ma vere meditazioni sulla soglia tra memoria e desiderio, tra realtà e mito. L’Irpinia, in queste pagine, non è una regione geografica, ma una condizione dell’anima: un archetipo. Il ritorno alle radici non ha qui nulla del folklorico o del nostalgico, ma assume la forma di una ricerca di senso, un esercizio etico ed estetico di consapevolezza.
Le letture intense di Mena Matarazzo e Angelina Martino hanno dato corpo a questi testi, rendendo visibile ciò che in essi è invisibile: il tempo, il dolore, l’attesa, la speranza. La riflessione lucida e poetica della dott.ssa Milena Acconcia ha innestato il pensiero sull’esperienza, mostrando che ogni cultura nasce nel momento in cui qualcuno si ferma a riflettere sul proprio stare al mondo. E nel suo contributo vibrante e acuto, la dott.ssa Acconcia ha richiamato il pensiero di Claude Lévi-Strauss, sottolineando come ogni racconto popolare sia un “mito in azione”, un modo con cui le comunità organizzano simbolicamente il caos dell’esperienza. Così i racconti di Tecce – ha evidenziato – funzionano come strutture che tengono insieme ciò che la modernità tende a frammentare: tempo e spazio, individuo e collettività, memoria e futuro. La sua densa analisi antropologica, ha restituito profondità teorica senza mai sacrificare l’emozione, tracciando un ponte tra scienza e sentimento, tra lo sguardo analitico e quello empatico.
Anche l’intervento dell’editore Pietro Graus ha riportato il libro al suo significato più profondo: un gesto di resistenza simbolica contro la dimenticanza, un atto di fiducia nella parola come fondamento della coesistenza. Ma vi è di più. La sua presenza, da napoletano autentico, ha sancito un’alleanza affettiva e culturale tra Napoli e l’Irpinia, due territori spesso raccontati come separati, ma in realtà uniti da una comune vocazione al racconto, alla profondità, alla ferita e alla bellezza. Graus ha parlato di necessità della narrazione, in un mondo che ha smarrito il tempo lento del racconto e della contemplazione. E ha riconosciuto nell’opera di Tecce una voce che può parlare non solo a Napoli e all’Irpinia, ma al mondo intero, perché ogni radice, se autentica, tende all’universale.
E la degustazione finale, curata dallo chef Aldo Basile, ha completato questo rito civile in cui il cibo non è stato nutrimento, ma narrazione incarnata, gesto filosofico che ha unito corpo e intelletto.
L’evento ha segnato un successo non solo per la partecipazione entusiasta, ma per l’intensità con cui è stato vissuto. È accaduto qualcosa di raro: ci si è ascoltati. In un mondo che parla senza fermarsi, ci siamo concessi il lusso di fermarci e sentire.
Questa presentazione non è stata soltanto una serata ben riuscita. È stata un atto di pensiero. Un dialogo silenzioso tra ciò che siamo e ciò che potremmo ancora diventare. Perché ogni volta che qualcuno racconta con onestà, si riapre la possibilità dell’incontro. E in quell’incontro – fragile, necessario, profondamente umano – si rifonda il mondo.