Di Gianni Festa
C’ è qualcosa, nel caso dell’acqua, di non facile comprensione. Ovviamente il mistero si complica pensando ai bacini acquiferi dei monti irpini, che sono tra i più importanti di tutta l’Europa. Il problema ha radici antiche e ha visto interrogarsi e denunciare intellettuali di spessore come Guido Dorso, Nicola Vella e, recentemente, Sabino Aquino, profondo conoscitore della mappatura delle acque irpine e non solo. Il Corriere, dall’anno della sua riedizione, ha sostenuto la tesi dello “scippo delle acque”. Una questione di grande attualità, non solo per il fenomeno della siccità e per i conseguenti disagi delle popolazioni, ma soprattutto per il ruolo che sta svolgendo la Regione Campania, che si è impossessata delle sorgenti. Cominciamo daccapo. Il primo mistero da sciogliere è perché l’acqua che sgorga dai monti irpini è diventata di gestione pugliese, con l’Acquedotto pugliese che ha fatto sino ad oggi il bello e il cattivo tempo. Per capire, bisogna andare agli inizi del Novecento e alla tenacia di politici come Matteo Renato Imbriani e Camillo Rosalba. Dalla loro tenacia nasce l’idea di un acquedotto che trasportasse l’acqua dall’Alta Irpinia fino alla Puglia. Il 26 giugno 1902 viene approvata dal Regno d’Italia la Legge n. 245 “per la costruzione e l’esercizio dell’Acquedotto Pugliese”. Sì, fu proprio un irpino, Matteo Renato Imbriani, di Roccabascerana con residenza a San Martino Valle Caudina, eletto deputato nei collegi di Trani e di Corato, a spingere per la realizzazione dell’Acquedotto pugliese. Successe in particolare durante una riunione tematica tra buona parte dei deputati pugliesi convocata dall’allora Presidente della Provincia Lattanzio. In Irpinia cadde il silenzio. Nessuno protestò. Il consenso era controllato. Fu così che negli anni del Ventennio l’Acquedotto pugliese ricevette risorse importanti per adeguare la sua rete di distribuzione.
Nel Dopoguerra, sul problema dell’acqua interviene l’onorevole Fiorentino Sullo e con lui nasce il Consorzio Interprovinciale Alto Calore, costituito nel 1936, fra trentasei Comuni della Provincia di Avellino e sette Comuni della Provincia di Benevento, con il fine di provvedere alla costruzione ed alla manutenzione di un acquedotto a servizio di una popolazione di circa 162.000 abitanti. L’impegno iniziale è straordinario. Il Consorzio acquisisce un patrimonio di tutto rilievo e di grande qualità. Lo stesso Sullo, nei suoi vari interventi, ribadiva che se amministrato con il criterio del rigore le acque irpine, grazie ai bacini ancora autonomi, avrebbero fatto la fortuna della provincia. Ma fu una profezia errata. Il Consorzio, in quegli anni la più grande fabbrica di occupazione, secondo solo all’ospedale, si snaturò diventando riferimento del sistema clientelare. Il resto lo fece la trasformazione del Consorzio in Alto Calore, con lo sdoppiamento per due società, reti e patrimonio. Il debito aumentava, le clientele non cessarono ed ecco pronta la dichiarazione di fallimento il cui esito è ancora da decidere. Torniamo allo “scippo delle acque” da parte dell’Acquedotto pugliese. Una pagina di grande tristezza. Siamo agli inizi degli anni 2000. Il Presidente della Regione Puglia è l’astro nascente Raffaele Fitto. Berlusconi lo adotta facendo giungere nella regione risorse straordinarie. Va ben oltre. Le quote dell’Acquedotto pugliese sono in mano al Ministero delle Finanze. Il Cavaliere decide di svincolarle e regalarle a Fitto. Non vado nei particolari per amore di carità, ma quando la Puglia organizza un tavolo per la nuova gestione delle acque sono presenti i pugliesi che fanno man grossa delle sorgenti, soprattutto irpine, la Basilicata che riesce ad ottenere un sola quota del pacchetto e l’Irpinia resta a secco. Perché? La Regione Campania, guidata dal presidente Antonio Bassolino, non si presenta al tavolo. E viene esclusa dalla spartizione. E’ una grave omissione. Si registra nel frattempo uno scippo nello scippo. Quella Regione colpevole dell’assenza all’atto della divisione delle quote rinasce con il governatore Vincenzo De Luca. Le mani sulle sorgenti irpine passano nella titolarità della Regione Campania. Si colorano subito di una sorta di voto di scambio tra il governatore e l’onorevole Clemente Mastella che le utilizza per la diga di Campolattaro ormai quasi a secco.
Sempre la Regione chiede all’Acquedotto pugliese di poter ricevere almeno maggiore acqua. La richiesta viene esaudita. La sostanza non cambia: la prossima estate si vivrà all’insegna dell’emergenza idrica. Questa narrazione storica della vicenda della gestione delle acque irpine da parte dell’Acquedotto pugliese intende fornire anche elementi di giudizio. E’ insomma una storia di malapolitica, di accordi fatti sulla testa di chi l’acqua veramente la produce e deve inginocchiarsi davanti a chi ne ha fatto abuso. In questa storia è stata omessa l’amara pagina di amministratori dei Comuni interessati costretti ad andare con il cappello in mano per ricevere pochi spiccioli, o i ristori che sono da intendersi come volgari elementi di corruzione. In fondo si vuole qui testimoniare la perduta occasione di sviluppo della provincia, per responsabilità di una classe dirigente che da Renato Matteo Imbriani fino a Bassolino, passando per i Magnifici sette si è resa colpevole di aver dedicato poco spazio alla difesa delle sorgenti irpine.