Tra un mese e mezzo le nuove elezioni. Andiamo al voto tra i veleni di una campagna elettorale giocata come al solito molto sulle promesse in campo economico a volte strampalate e demagogiche e soprattutto dominata dall’incertezza. Se infatti diamo retta ai sondaggi quello che ci appare è un orizzonte molto frammentato. I blocchi politici che si presentano davanti agli elettori sono quattro. Il centrodestra tradizionale con Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e la lista centrista. Il Pd insieme ai suoi alleati, il Movimento Cinque Stelle e la nuova formazione di sinistra: Liberi e Uguali guidata dal Presidente del Senato Piero Grasso. La percentuale necessaria per ottenere una possibilità minima di governare è di poco inferiore al 40 per cento nella quota proporzionale ma ovviamente non sarebbe sufficiente perché servirebbe anche una buona affermazione nella parte uninominale. In questo quadro la coalizione che ha maggiori probabilità sembra essere il centrodestra che può contare su una solida percentuale al Nord e potrebbe sfruttare le divisioni del centrosinistra al centro e nel Mezzogiorno. Certo c’è la variabile cinque stelle che per la prima volta si misura in una competizione con dei collegi uninominali. Se nessuna forza o coalizione raggiungesse la quota minima per governare si aprirebbe un altro scenario. Potrebbe cioè nascere un esecutivo con partiti diversi rispetto a quelli che si sono presentati davanti agli elettori. Del resto già l’ultima legislatura è nata così. Il governo di Enrico Letta era infatti sostenuto dai rivali della campagna elettorale, Pd e Pdl insieme. Sembra passato un secolo era solo il 2013. Stavolta sembra però più difficile lo scenario di un accordo tra Pd e Forza Italia e non per le dichiarazioni di facciata dei leader che lo escludono ma perché i numeri con questa legge elettorale non consentiranno probabilmente a queste due forze di avere la maggioranza necessaria. C’è poi una ragione politica. Bisognerà vedere se partiti indeboliti dalla campagna elettorale hanno la forza di entrare in un governo non scelto dagli elettori. Il rischio che si potrebbe aprire in Parlamento è allora quello di una fase di grande instabilità. In fondo al tunnel le uniche luci potrebbero essere accese dal capo dello Stato che deve scacciare i fantasmi di nuove elezioni e provare a dare vita ad un governo del Presidente che comunque dovrà trovare alla camera e al senato i numeri per sopravvivere. I governi di questa natura hanno spesso accompagnato la vita di una legislatura soprattutto nella cosidetta seconda Repubblica. Il governo Dini nel ’94 nacque con i voti di partiti dell’allora opposizione come Pds e Popolari e una sola forza di maggioranza la Lega di Bossi. Durò poco ma fu determinante per consentire l’avvio dell’intesa di centrosinistra che portò al governo Prodi del ’96. Nel 2011 toccò a Monti mettere insieme personalità molto diverse dal Pd di Bersani a Berlusconi e ai centristi e traghettare il paese da una fase convulsa al voto. Oggi al governo c’è il terzo premier di questa legislatura. Dopo Enrico Letta e Matteo Renzi è stata la volta di Paolo Gentiloni. Non si è dimesso e resterà in carica fino al voto di marzo e se non ci sarà una maggioranza attenderà gli eventi continuando a stare a Palazzo Chigi. Una definitiva provvisorietà figlia di questi tempi incerti. Al tramonto della Prima Repubblica l’ultimo segretario della Democrazia Cristiana Mino Martinazzoli pronunciò parole quasi profetiche a sentirle oggi “è in crisi una formulazione contrattualistica della democrazia per la quale i partiti si sentono costretti a diventare sempre di più acquirenti di consenso che comprano ad un prezzo sempre più esoso, ottenendone inevitabilmente in cambio il segno di una ingovernabilità”.
di Andrea Covotta edito dal Quotidiano del Sud