di Giulia Di Cairano
Non ho mai letto Pasque di sangue di Ariel Toaff, il discusso libro sull’ebraismo ashkenazita medievale accusato, secondo molti illegittimamente, di aver offerto all’antisemitismo un’apologia radicata nelle colpe degli ebrei europei per i crimini commessi contro i cristiani. Da un libro di antropologia narrativa locale, pubblicato per la prima volta nel 2011, ne ho inaspettatamente appreso l’esistenza nel riferimento alle possibili origini ebraiche di un gesto, quello di tenere il pollice stretto tra l’indice e il medio – per indicare a qualcuno che avrebbe avuto l’unghia di qualcosa prossimo al niente – in uso tra i calitrani, già diffuso nel Quattrocento, secondo Toaff, tra gli ashkenaziti tedeschi con cui ogni Pasqua oltraggiavano Gesù per dirgli che non avrebbe avuto la loro eredità. Tuttavia, la radice del gesto in queste terre potrebbe essere diversa e risalire a tempi di carestia da combattere con un simbolo di fecondità, tempi in cui i bambini dividevano anche una fetta di pane e zucchero per attenuare la fame di chi aveva ancora meno di loro. Non sapendo quale sia il (mio) grado di urgenza di una discreta conoscenza dell’ebraismo e quali le letture minime per conseguirla, non so collocare la ricerca di Toaff nella lista di libri da leggere e non so quanto mi sia utile per comprendere quello che sta succedendo in Medio Oriente. Ricordo di aver avuto undici anni quando ho letto per la prima volta della questione palestinese sul libro di geografia delle scuole medie. Della Shoah ho sentito parlare sin da bambina, invece di Gaza e della Cisgiordania ho saputo grazie a un giovane e attento professore che ha impresso nella mia memoria a lungo termine quel paragrafo di storia, che non trovava posto nel programma di storia. Il ricordo è rimasto latente fino al 7 settembre 2023, quando a diciassette anni e all’inizio del quinto anno di liceo, ho raccordato, entro i limiti delle differenze storiche e socioculturali, l’attacco di Hamas a Israele all’attentato della Mano Nera nella persona di Gavrilo Princip ai danni dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, casus belli del primo conflitto mondiale. Come per questo la scienza storiografica non ha potuto ignorarne le cause remote – tra cui il colonialismo dei Paesi europei, che si ritenevano portatori di civiltà in Africa e Oriente e si erano approfittati del crollo dell’Impero ottomano per impossessarsi dei Balcani, e il paradosso della sicurezza generato dalla corsa agli armamenti –, allo stesso modo non si possono annullare le molteplici e complesse cause della guerra medio-orientale. Non si tratta di giustificare o discolpare Hamas, ma di comprendere che il mondo non si divide in buoni e cattivi come nelle fiabe e che il racconto della realtà, nel delicato e intricato rapporto tra teoria e prassi, deve essere il più fedele possibile a essa, andando dietro la verità effettuale della cosa, prima di immaginare cambiamenti e possibili soluzioni. Per destarsi dall’oblio istituzionale e dal sonno collettivo dell’indifferenza, bisogna correre l’elea di aprire una delle finestre su Gaza e io ho scelto quella del libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina di Francesca Albanese, edito da Rizzoli e uscito nel maggio 2025.
Nel piazzale davanti alla villa del Seminario di Sant’Andrea di Conza, durante l’incontro del 5 agosto che ha ospitato la relatrice speciale ONU sui territori palestinesi occupati, l’attore, regista e cantante Moni Ovadia ha tuonato sulla perdita del diritto di parola da parte dell’Occidente sulla questione palestinese: la formula due popoli, due Stati è retorica calata dall’alto, facile come dividere l’acqua dall’olio e anche io l’ho creduta chimica di precisione. Per evitare eristiche argomentazioni a favore di una cesura netta tra Oriente e Occidente, gioverebbe considerare le parole di Ovadia non come un invito al silenzio – secondo tale interpretazione non avrebbe neppure avuto senso la sua presenza a un evento che ha parlato di Palestina in una provincia italiana – ma piuttosto come un’esortazione all’ascolto, non passivo. A fornire almeno una delle tante buone ragioni per farlo è stata la dottoressa Albanese, ribadendo che a essere in pericolo sono anche le democrazie occidentali e che le guerre che si stanno consumando a Gaza, in Cisgiordania e nelle altre regioni del mondo riguardano la libertà di ogni persona, anche di quelle presenti nella platea a cui si è rivolta. Non si tratta di fare leva sull’egoismo, ma di passare attraverso la conoscenza di sé, dei propri problemi, errori e responsabilità, con un atteggiamento quasi socratico. La professoressa Monique Canto ha scritto che l’alternativa tra retorica e filosofia, presentata all’inizio del Gorgia platonico come scelta tra due modelli di vita, nel percorso del testo diventa scelta tra la vita e la morte perché Socrate ha rovesciato i valori di una tradizione, di una città, e per questo Hegel ha usato la categoria del tragico per descriverlo: ha dischiuso il principio dell’interiorità ai Greci – e dunque a noi – ma ha anche minato le robuste colonne della legge che reggevano Atene. Albanese non è una filosofa. Tuttavia, si è caricata del peso di decostruire il pensiero coloniale nella stesura dei suoi rapporti, nel suo j’accuse che ricorda quel io so di Pasolini – intellettuale che il Ministero dell’Istruzione ha scelto per una delle tracce del tema di maturità di quest’anno, la stessa istituzione che pretende di imporre delle gerarchie culturali e una riscoperta della storia dell’Occidente. Ma cosa sarebbe quest’ultimo senza l’Oriente? Lungamente fraintesa, la massima delfica del conosci te stesso non è un invito al ripiegamento su di sé, ma al riconoscimento attraverso e nel commercio di sguardi e parole con l’altro. Questa è chiaramente una semplificazione ed è certo che l’impegno, lo studio e il lavoro di Francesca Albanese non bastano. Ma laddove non è arrivata lei – una donna bianca occidentale la quale, come avrebbe detto Murgia, ha capito che la cosa più sovversiva che una donna possa fare oggi è parlare e che, ancora con la scrittrice sarda, ciò che conta è come si mette a servizio degli altri il proprio privilegio – è intervenuto Omar Suleiman della Comunità palestinese campana. Servono le nostre parole, però quelle di chi ha vissuto l’orrore sulla propria pelle servono di più, costituiscono un prius assiologico e logico. Nella commozione della disposizione a perdonare tutto ciò che è stato fatto al suo popolo, alla sua famiglia e alla sua persona, il poeta ha letto alcuni versi che mi sembra di aver già sentito. “C’è acqua fuori da Gaza? / Ci sono medicine? […] A Gaza un bambino chiede. / Ci sono giardini? Cuori che volano, case, spiagge? […]” assomigliano ai versi di Primo Levi “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che muore per un sì o per un no”. Mi ha sempre colpito la testimonianza di Edith Bruck sulle discriminazioni subite dagli ebrei d’Israele nel ‘48: giunta ad Haifa, le chiesero quale fosse il valore che gli ebrei d’Europa portavano e di Auschwitz nessuno voleva sentire parlare, anzi alcuni ebrei lo ritenevano giusto, così si vide costretta a lasciare Israele. Non so perché la Bruck non voglia usare il termine genocidio a proposito della Palestina, ma è certo che la relazione tra singoli individui, gruppi, comunità e nazioni, tra passato e presente, non si può interpretare attraverso processi deterministici o meccanicistici.
Quando il poeta Suleiman ha asserito che i presenti nella piazza di Sant’Andrea di Conza «sono la parte migliore dell’umanità», usando l’indicativo e non il congiuntivo, il tempo della realtà e della certezza, non quello dell’immaginazione e del dubbio, ho avvertito un senso di sollevazione seguito da uno schianto, come una parabola con concavità verso il basso, come un conato, inteso non come il presente di conato, quello che in latino esprime l’azione non nell’atto di compiersi ma nel momento in cui il soggetto si dispone a compierla.
Non so quanto sia utile stare in piedi, o seduti, o accovacciati, o rannicchiati, o appesi come primati alle ringhiere, con un paio di Bikenstock e un pantalone di lino o un baggy jeans sbiadito non dal tempo – magari prodotto, anche nell’ignoranza del fruitore, in Cina dalle mani di una bambina – e ascoltare, chissà in quale misura. Non so quanto sia utile regolare un diaframma su un’apertura di f/22 per permettere un passaggio minimo della luce, catturata da un sensore che la converte in segnali elettrici e poi in dati digitali di un’immagine che romanticizza la grazia di Francesca Albanese e non so quanto sia utile appuntarsi sulle note di un telefono le sue parole e prendervi le mosse per una riflessione scritta sullo schermo di un computer, che rielabora le informazioni nella polarizzazione del sistema binario. Non so se l’Irpinia, terra d’origine della relatrice e attivista, accoglierà il suo guanto di sfida sulla creazione di una BDS qui nelle terre dell’osso, che nonostante la forza di resistenza degli autoctoni non sono umidificate da nessuna polpa. Non so quale sia il confine tra l’esibizionismo e la presa di coscienza nelle manifestazioni pro-Pal dei giovani, anche se qualsiasi moto sociale si nutre di dinamiche psicologiche come l’imitazione sociale e il bisogno di appartenenza a un gruppo.
“Nella coppia guerra-pace il termine forte è il primo, il termine debole è il secondo, sia nel linguaggio colto sia nel linguaggio corrente”, scriveva Bobbio in Pace per la Treccani. “Piaccia o non piaccia, ne siamo o no consapevoli, la nostra civiltà, o ciò che noi consideriamo la nostra civiltà, non sarebbe quello che è senza tutte le guerre che hanno contribuito a formarla.” Da Tucidide in poi la Storia è principalmente racconto di guerre. Tuttavia, “è principio ben noto e non controverso della teoria dell’argomentazione quello secondo cui il comportamento che ha bisogno di essere giustificato è quello che contrasta con le regole della morale corrente, il comportamento deviante, non quello regolare”. Allora, perché la guerra e non la pace?
Non so come, ma la pace va cercata sempre e comunque, senza lasciarsi sedurre dalle speciose argomentazioni a sostegno della guerra giusta. Non esiste.