Sono passati due anni dalla Festa della Repubblica che segna l’esordio dell’Italia politica uscita dal voto del 4 marzo. Le cronache di allora ci raccontano del premier Conte che cerca il contatto con la folla e dice “Non fatemi i complimenti adesso, non ho fatto ancora nulla. Spero me li possiate fare dopo. Finora sono state fatte troppe chiacchiere, ora bisogna fare i fatti”. Con lui c’è il ministro dell’Interno Matteo Salvini che gestisce in condominio con Di Maio la leadership politica di una coalizione inedita. Batte sul tasto che lo ha accompagnato durante la campagna elettorale quello dei migranti e annuncia: andrò in Sicilia, è la nostra frontiera. Voglio migliorare gli accordi con i Paesi da cui arrivano migliaia di disperati per il bene nostro e loro. I toni restano però da spot: per i clandestini la pacchia è finita. A rileggere oggi queste brevi note sembra trascorso più tempo. Il quadro politico è radicalmente mutato. Salvini è il leader dell’opposizione e il 2 giugno manifesterà contro il suo ex premier. Causa coronavirus la parata ai Fori Imperiali non si farà. Il tempo ha cancellato anche la timidezza di Conte non più stretto tra Salvini e Di Maio ma ormai Presidente del Consiglio di un’altra coalizione inedita e che adesso con l’emergenza coronavirus ha assunto una indipendenza politica pur senza avere ancora una sua precisa identità. La trasformazione più rilevante è però quella del Movimento Cinque Stelle. Due anni di governo hanno segnato un declino elettorale e una serie di spinte centrifughe interne. Governare non è facile come stare all’opposizione. Bisogna fare scelte a volte impopolari. Una vicenda su tutte, la più emblematica, è quella che riguarda la giustizia. Un tempo un semplice avviso di garanzia era considerato già una macchia indelebile per un politico e i grillini chiedevano immediatamente le su dimissioni, oggi si accetta il principio costituzionale della presunzione di innocenza. E ancora più paradigmatico della situazione attuale è quello che è accaduto nella giunta per le immunità del senato chiamata ad esprimersi sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini per il caso della Open Arms. La pattuglia renziana decide di non partecipare al voto con i suoi tre senatori, e di fatto contribuisce a “salvare” il leader leghista. Una decisione opposta presa sempre dai renziani a proposito della Diciotti un caso analogo. I Cinque Stelle al contrario coprirono allora Salvini con la giustificazione non potevamo mandare a processo il ministro dell’Interno. E allora come ha scritto Alessandro De Angelis su Huffington Post “ciò che valeva allora non vale sulla Open Arms, nell’ambito di una battaglia navale che ha già mietuto, come prima vittima, la coerenza su principi non banali. Ecco, al netto della tattica, delle dietrologie, dei tanti bla bla più o meno cacofonici, siamo al game over, grottesco e caricaturale, di ogni principio politico, proprio nel momento in cui il paese ha bisogno del massimo di chiarezza, coesione, determinazione, visione. E invece il paradosso diventa sistema in quest’epoca eccezionale.. È la fotografia di una politica che funziona sulle nomine quando il criterio è la convenienza, ma disinvolta e smarrita nei suoi principi di fondo”. Il tempo insomma cancella e rimuove e in politica è legittimo cambiare opinione. Il punto vero però è perché costruire un’alleanza e di quali significati caricarla. Un’intesa anti destra dovrebbe poggiare su gambe più solide e non dare l’idea di esistere solo per stato di necessità e mancanza di alternative. Non si può andare avanti solo con la motivazione “sennò cade il governo”, non si può gestire solo l’ordinario, il Paese ha bisogno di stabilità vera e non apparente.
di Andrea Covotta