Giorgia Meloni non ha dubbi: il G20 di Bali, l’esordio del nuovo governo sul palcoscenico internazionale è stato un successo, “con l’Italia protagonista…in prima linea su tutti i tavoli”; un successo, naturalmente, anche e soprattutto del (o della) presidente del Consiglio: “Confesso che non sono riuscita a organizzare tutti i bilaterali che erano stati richiesti”. C’è del vero, naturalmente: l’attesa per il debutto della prima donna alla guida dell’esecutivo, in un Paese che non brilla per valorizzazione della parità di genere in politica e non solo, è stata ampiamente soddisfatta; e dunque complimenti da Joe Biden e da Xi Jinping, apprezzamento americano per la “coerenza” atlantica dell’Italia, promesse di potenziamento dei rapporti commerciali, un invito ufficiale a Pechino. Insomma: un bilancio più che positivo. Prima che qualcuno gliene desse merito, Giorgia Meloni se l’è detto da sé (solo in questo tratto narcisistico assomiglia a Berlusconi). Comunque ha ragione: a Bali la presidente italiana si era presentata come ad un esame, ed è stata promossa da una giuria ben disposta ma non per questo meno severa. Il sottotesto è che al successo ha contribuito la composizione del governo, una compagine politica omogenea premiata dagli elettori e quindi destinata a durare. Anche questo è vero, benché sulla durata bisognerà attendere la verifica dei fatti; però bisogna ammettere che il predecessore Mario Draghi, pur a capo di un esecutivo non politico, non aveva bisogno di sostenere esami, anzi era lui a dare le carte, e spesso a indicare le soluzioni ai problemi più complessi. Fu Draghi, per esempio, a trovare il marchingegno necessario per sterilizzare le riserve valutarie della Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, ma è acqua passata. Piuttosto, dato atto al governo di essere partito col piede giusto nello scacchiere internazionale, bisogna interrogarsi sul perché, invece, in casa propria sia partito col piede sbagliato. L’elenco dei passi falsi nelle prime settimane di vita è già abbastanza lungo: il decreto rave che limita la partecipazione a manifestazioni pubbliche dovrà essere modificato, il contrasto all’immigrazione clandestina rischia di tradursi in criminalizzazione delle Ong e delle loro iniziative umanitarie e non piace all’Europa, l’aumento dell’uso del contante fino a 5000 euro infilato in un decreto legge e subito depennato dopo le osservazioni del Quirinale, il progetto di autonomia differenziata presentato dal ministro Calderoli ai presidenti delle Regioni prima di essere vagliato dal Consiglio dei ministri, le promesse su riduzione delle tasse e del costo del lavoro dovranno essere riviste al ribasso. Insomma, l’esordio del governo sui temi economici e della sicurezza non è altrettanto brillante di quello che si è visto a Bali. Perché? Forse perché nelle questioni domestiche il governo pensava che, avendo vinto le elezioni, non avesse bisogno di sostenere altri esami; il che non è vero, intanto perché pur essendo omogeneo, si basa comunque su una coalizione di partiti diversi che oltretutto fanno capo a famiglie politiche in competizione in Europa, e poi perché nelle battute iniziali l’impostazione sovranista e autoreferenziale ha fatto premio sullo spirito di coalizione e sulla realtà di un Paese che non accetta camicie di forza. E così, mentre resta aperto il dossier con Parigi sulla questione migranti, gli esami per il governo sono destinati a proseguire su alter materie.
di Guido Bossa